Kenoscromìa è la matrice poetica e concettuale di Chiara Gambirasio (Bergamo, 1996). Una pratica che l’artista bergamasca sta affinando da una decina di anni in tutte le sue declinazioni e sfaccettature: filosofica, antropologica, pittorica, psicologica e così via. La parola è un neologismo creato ad hoc da Gambirasio per intendere la vibrazione cromatica nel e del vuoto. La sua attenzione si concentra su dei punti di colore che appaiono nella realtà come intrusi, ma una volta posti al centro dell’attenzione diventano fulcri prospettici per un’osservazione insolita della realtà. La sua è una ricerca che si dispiega in varie discipline ma che sottende come minimo comun denominatore il principio pittorico di codifica del reale attraverso il colore. La Kenoscromìa appunto. E da qui partiamo.
Kenoscromìa, origine e significato
Il termine Kenoscromìa viene spontaneamente alla luce nel 2019, in seguito ad un primo tentativo di riunire in unico corpo verbale tutto il materiale teorico raccolto attraverso la pratica artistica. É nata innanzitutto come tesi accademica per indagare gli aspetti già presenti nella pratica artistica ancor prima che quest’ultima prendesse una reale consistenza. Si è evoluta ben presto in qualcos’altro: da una sorta di teoria predittiva è divenuto il nome proprio di una prassi quotidiana di ascolto e rapporto con la materia e la luce. Nel 2022 ne ho inoltre intravisto un’ulteriore possibile apertura strutturandola come una vera e propria disciplina.
Kenoscromìa deriva dall’unione di kenos (vuoto) e chromia (colore). Entrambi i termini sono stati presi dal greco, imitando la struttura di molti altri neologismi sia antichi che moderni. Il significato che deriva dalla giustapposizione di questi due termini diventa esperienzialmente “la vibrazione cromatica nel e del vuoto”. Per quanto possa apparire contraddittoria l’unione di vuoto e colore, ci tengo a precisare che non è stata una scelta razionale viziosa o astratta, bensì una necessità che potesse unire proprio ciò che pareva slegato. Il vuoto esiste, e ne facciamo esperienza ogni giorno in molte delle sue sfaccettature, e il colore viene vissuto come ponte per entrare in contatto proprio con quel vuoto altrimenti invisibile.
Vuoto e colore, sintesi e dialogo: punti di riferimento teorici (artisti, pensatori, filosofi, scienziati…) e come hai assemblato e messo in pratica dal punto di vista pratico tutte queste istanze
Quando nomino il vuoto, lo considero in tutte le sfaccettature possibili, anche quelle che ancora non ho esperito personalmente, ma che è innegabile che esistano. In sintesi posso dire che lo intendo come uno spazio-tempo in cui anche la gravità si annulla, sia livello fisico, che metafisico. In tutti gli studi fatti ho sempre percepito la coerenza tra le scoperte della fisica contemporanea e gli insegnamenti dei grandi maestri spirituali sia antichi che viventi. Einstein è ancora oggi il mio “artista” preferito, per la struttura di pensiero a cui ha dato forma tramite formule matematiche, ma posso annoverare tra i miei mentori (in ordine sparso) Goethe, Rudolf Steiner, Caspar David Friedrich, Mark Rotkho, Gotthard Graubner, Anselm Kiefer, Andy Goldsworthy, Maria Zambrano, Remo Salvadori, Olafur Eliasson, Chandra Livia Candiani, Christian Bobin, Thomas Kuhn, Spinoza, Thich Nhat Hahn, Krishnamurti, Carl Gustave Jung, Edwin Abbott, Cezanne, Wilhelm Ostwald, Emma Kunz, Aby Warburg, e molti altri.
Come si può evincere da questo breve elenco, i riferimenti del passato su cui si appoggia la kenoscromìa sono stati individuati in svariati campi di ricerca: dalla poesia alla chimica, dalla filosofia alla psicologia, dall’alchimia alla teosofia. In quanto disciplina non si appoggia ad una storia già scritta, bensì ne ritrova i capostipiti con una lettura postuma del loro modo di operare, poiché tale modo di usare il colore come strumento e il vuoto come soggetto inafferrabile non è un’invenzione nata su due piedi, ma una pratica già consolidata. Così la kenoscromìa nasce da una non-selezione bensì da un ascolto profondo della direzione verso cui la mia curiosità continua a correre, senza pregiudizi disciplinari. Bisogna anche ammettere che spesso è stata innanzitutto la pittura a mostrarmi la via per comprendere attraverso il colore qualcosa in più del mondo, qualcosa in più del vuoto.
Il colore come filtro per codificare il reale…
Non credo risulti particolarmente rivoluzionaria la constatazione che quando osserviamo la realtà e cerchiamo di farci un’idea quanto più oggettiva possibile di ciò che ci circonda, incappiamo nella limitatezza della nostra percezione. L’osservazione è sempre filtrata da un sentire soggettivo che modifica concretamente le immagini che ci costruiamo nel cervello per orientarci nel mondo. Il pensiero scientifico, ed in parte la grande maggioranza del pensiero contemporaneo prestazionale, considera questi filtri come deleteri o addirittura nocivi per la conquista della “verità”. L’approccio kenoscromico, al contrario, comincia dall’osservazione dei meccanismi psicologici che si attivano nello sguardo del soggetto osservante nei confronti dell’oggetto osservato. Tali strutture di pensiero si formano nel tempo di un individuo per cultura, sensibilità, reazione all’ambiente circostante ed influenzano completamente la percezione. Lo sguardo del pittore non è esente da questo processo, ma utilizza consapevolmente il colore, l’impasto colorato, per dare forma a quel qualcosa che si costituisce come rielaborazione di un’osservazione attenta. Il colore si dispone nello spazio, indifferentemente bidimensionale o tridimensionale, creando delle immagini del mondo filtrate dalla soggettività dell’artista. Quanto più le dimensioni fisiche sono coinvolte in tale percezione e restituzione visiva in forma di opera, tanto più l’opera verrà vissuta come “reale”. La kenoscromìa mira a creare dei modelli di rappresentazione a quattro dimensioni, compresa quella temporale, affinché il colore possa divenire un parametro di codifica del reale utile a percepire istantaneamente una fetta maggiore di mondo. Il variare del colore nel tempo può essere considerata come una grandezza fisica (la cangianza) che ci mostra in ogni istante la trasformazione della materia che entra in contatto con la luce.
Esempi concreti raccontando alcune tue opere emblematiche
Tali riflessioni per quanto possano sembrare astratte, sono invece nate da un rapporto diretto con la materia, plasmata tra le mani, e osservata nelle sue trasformazioni illimitate. Il colore cambia continuamente, vibra e si trasforma in ogni istante e per quanto questo appaia sulla superficie delle cose, io credo che sia semplicemente il riflesso di ciò che muta nel profondo di ogni cosa. Un volto che arrossisce riflette un moto cromatico ben più profondo di una semplice reazione cutanea, così un’opera messa all’aperto continua a cambiare la sua sostanza interagendo con la luce, il tempo atmosferico, e gli esseri viventi che ci si imbattono. Un esempio è dato da “Sedimento” che ad ogni condizione luminosa ci restituisce una variazione cromatica ben evidente. Gli spicchi in cui Sedimento è suddivisa sono delle porzioni di materia solidificata, calcestruzzo e pigmenti, che nel momento in cui sono state realizzati replicavano i colori che si affacciavano sulla piazza in cui è posta. Nell’istante in cui gli spicchi sono stati creati erano dei campioni che imitavano esattamente i colori delle facciate, delle finestre e degli elementi urbani presenti in quel luogo. Nel tempo materie differenti cangiano in modo proprio in base alla loro essenza, perciò Sedimento è la testimonianza di 17 momenti luminosi specifici in cui l’opera aveva lo stesso colore di 17 elementi presenti nella piazza. L’occhio riconosce la somiglianza tra quella finestra e quello spicchio d’opera, ma ne percepisce anche la variazione che è avvenuta nel tempo, così il passaggio costante dello sguardo dall’uno all’altro crea una vibrazione cromatica che riaccende il senso della vista e la capacità di percepire leggere sfumature di colore. Un altro esempio si può trovare in “Terre D’Istanti” in cui le due montagne gemelle sembrano a prima vista molto simili ma, essendo orientate sull’asse est-ovest, una delle due risulta sempre ombreggiata dunque nonostante la similarità cromatica ci presentano sempre la luce e l’ombra della stessa sostanza. A mezzogiorno è la forma stessa, irregolare, che fa vibrare in modo diverso i due monti, ed ogni mezzogiorno è diverso dall’altro. Ecco come il tempo resta presente nello sguardo quando il colore è concepito quale sostanza da plasmare in quattro dimensioni. Per quanto riguarda il vuoto, esso rientra nelle mie opere in innumerevoli modi, un esempio è offerto dalla serie dei “Cosmi in vasi”, in cui la mancanza di un fondo rivela la totale coincidenza tra l’interno e l’esterno. Il modo in cui l’impasto colorato (gesso e pigmenti) prende forma tridimensionale attorno a un vuoto dipende dall’impulso e dalle sensazione che un colore specifico suscita nel momento della modellazione. I “cosmi in vasi” sono come delle pennellate di gesso che solidificano nello spazio, ed ognuna di queste pennellate incarna un istante specifico, dunque un colore unico e irripetibile che si appoggia al vuoto per renderlo visibile. Ognuno dei “Cosmi in vasi” incanala lo sguardo dell’osservatore verso la terra, filtrando la luce, modificando la percezione di tale porzione di pavimento. L’opera, fatta di colore, è un filtro per osservare il vuoto.
Come sta proseguendo e continuerà a perpetrarsi questa ricerca
Questa ricerca pare ahimè inarrestabile. Spesso provo ad allontanarmi totalmente, ad abbandonare ogni struttura fino ad ora elaborata, ma poi questi punti cardine ritornano a parlarmi di nuovi mondi fino a quel momento ancora inesplorati, così mi ci rituffo dentro. Il lavoro di questo periodo consiste nel proseguire il dialogo a tu per tu con la materia, sia attraverso il disegno che la pittura che la scultura, ma ho deciso di cominciare a scrivere seriamente di questa disciplina per trarne una pubblicazione di un primo volume in cui racchiudo i principi cardine della Kenocromìa come disciplina. In realtà già immagino un ambizioso e lungimirante sviluppo che prevede una serie di ulteriori pubblicazioni in collaborazione con esperti di altre discipline in cui metteremo in luce il modo esatto in cui il colore e il vuoto vengono già vissuti come parametri per trarre informazioni dal reale. Ho già avviato alcune collaborazioni con un matematico, un fisico, un chimico e una stilista che tinge i tessuti con pigmenti vegetali da lei stessa coltivati. Non vedo fine a questa ricerca, ma solo costanti nuovi inizi, e penso ci vorrà l’intera vita da dedicarci.