Nel lavoro di tanti scultori, il colore è spesso chiarificatore; per Willy Verginer, surrealista del legno, è piuttosto un mezzo per rendere l’opera ancora più misteriosa e concettuale. Ne parliamo in questa ventisettesima puntata di progetto (s)cultura.
Nella tua terra d’origine, la Val Gardena, la scultura è di casa. Quando e come hai iniziato a praticarla?
Il primo approccio alla scultura l’ho avuto frequentando l’Istituto d’arte di Ortisei. Finita la scuola, sono andato in bottega e ho fatto il classico tirocinio.
Agli esordi di carriera hai studiato per diventare insegnante. Poi hai cambiato strada. Ma sino a un certo punto: I tuoi figli, Matthias e Christian, sono entrambi scultori.
Sì ho cambiato idea. Invece di frequentare il Magistero a Firenze come avevo intenzione di fare, sono andato in bottega. Ho lavorato molti anni come scultore artigiano alle sculture sacre, il che è stato per me una buona palestra. Ma sentivo sempre forte il desiderio di trovare una strada mia nell’arte. Matthias e Christian, che sono gemelli, hanno avuto la mia stessa formazione. Tutt’ora lavoriamo sotto il medesimo tetto.
Chi sono invece i tuoi maestri, gli artisti cui guardi?
Quando ero molto giovane guardavo Manzù, poi per parecchio tempo Penone. Negli ultimi tempi non ci sono artisti cui guardo di preciso. Mi entusiasmano in tanti ma non sono fissato con nessuno.
Parliamo un poco del processo. Parti dal disegno, giusto?
Sì parto dal disegno, quasi tutte le mie sculture iniziano con uno schizzo. La seconda fase tradizionale, quella del modello o del bozzetto in creta, la eseguo raramente, solo con opere molto complesse. Dallo schizzo continuo direttamente col legno. Non uso tronchi ma tavole di 10 cm. Nell’assemblarle, costruisco una specie di sagoma che lavoro con la motosega. Il lavoro continua con gli scalpelli e le rifiniture con le lime. Finisco con la pittura.
Le tue opere di legno sono sovente dipinte a metà, come fossero state immerse in un bagno di pittura… Che cos’è per te il colore?
Nessuno o quasi ha notato che dipingo le mie figure usando più strati di colore. In apparenza sembra solo un colore, però, se si guarda attentamente, ci sono più sfumature, che portano la parte colorata a vibrare, ad essere più viva. Insomma le sculture non sono immerse in un unico colore. L’abbinamento colore-scultura nasce dalla mia formazione pittorica nell’Istituto d’arte, a partire dalla quale ho sviluppato un modo particolare di dipingere a fasce parte delle figure scolpite nel legno. Il colore, spesso saturo e acceso, mi aiuta molto a rendere l’opera straniante, non facilmente leggibile, dando così più possibilità di lettura e lasciando delle incognite di significato. Nel lavoro di altri scultori il colore è spesso chiarificatore; per me, è piuttosto un mezzo per rendere l’opera ancora più misteriosa e concettuale.
A differenza di tanti tuoi colleghi, fai uso esclusivo di strumenti tradizionali. Pensi che essi, e le conoscenze necessarie a utilizzarli, abbiano ancora un futuro in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia?
Penso di sì. In un’esposizione a Detroit ho avuto l’occasione di parlare con molti studenti d’arte e ho notato quanto sia grande l’interesse nelle generazioni nuove per il lavoro con strumenti tradizionali. Con rimpianto mi facevano notare come oggigiorno la possibilità di apprendere le tecniche della scultura tradizionale praticamente non esista più.
Gli strumenti sono spesso le peggiori schiavitù. Come nel caso dell’uomo con tanti cellulari al posto di occhi naso e bocca che si aggirava smarrito in una tua recente installazione: Il giardino perduto. Purgatorio e Antropocene.
È compito dell’artista come di ogni uomo rimanere libero, combattere per la propria libertà. Non sono gli strumenti di per sé negativi; tutto dipende dal come li usi e dal valore che gli dai. Per quanto riguarda la mostra da te citata, è forse una delle mie installazioni più riuscite.
Concordo. Sei, tra le altre cose, un ambientalista convinto. In una collettiva del 2017 a Detroit, After Industry, hai appeso e poggiato a una parete degli pneumatici fioriti e hai fatto abbeverare un cerbiatto a un barile di petrolio…
È vero sono un ambientalista, ma non un militante. La salvaguardia dell’ambiente è il problema più grande che l’umanità ha sulle spalle. È un problema che ci accompagnerà per un lungo periodo e non riuscirei mai a ignorare questioni come queste. Dalla loro soluzione dipende la nostra sopravvivenza come specie.
Un’altra tua rassegna, Rayuela, ha il titolo di un romanzo di Cortázar che si può iniziare a leggere da dove si vuole, dall’ultima pagina alla prima: un modo per restituire al pubblico una sempre più rara autonomia?
Il gioco come metafora della vita era il filo conduttore della rassegna Rayuela. Hai ragione, il gioco è una delle attività che ti fa vivere la liberta. Il gioco del bambino lo vedo come una rappresentazione della libertà particolarmente bella.
Tosatti ha di recente denunciato una critica italiana latitante. Che rapporto hai con i critici e la stampa?
Il mio rapporto con la critica italiana è episodico, saltuario. Forse ciò accade perché la gran parte del mio lavoro si svolge all’estero. Ho constatato che all’estero i critici hanno un’importanza diversa, direi minore che in Italia: il loro lavoro si concentra più che altro in studi di storia dell’arte. Tra l’altro, il rapporto tra critici e gallerie d’arte contemporanea non è così stretto come in Italia… Direi che all’estero critici e stampa sono più indipendenti e quindi anche più credibili.
E con i galleristi, con chi si occupa di divulgare la tua arte?
Con i galleristi ho per fortuna un buon rapporto. Certo, è ovvio, con alcuni la chimica funziona di più, con altri meno. Come in ogni rapporto di lavoro, è importante che ciascuno faccia la sua parte; il rapporto deve essere chiaro e la fiducia reciproca è basilare.
Qual è la mostra più bella che hai fatto e perché?
La mostra di cui sono più contento l’hai già nominata tu: è “Il giardino perduto. Purgatorio e Antropocene” che si è svolta nella chiesa di Bondo nel Trentino per la cura di Roberta Bonazza. Penso che questa mostra sia stata studiata nel modo migliore. Sull’altare barocco della chiesa sono stati installati degli animali, mentre le pale laterali avevano come struttura le sagome di telefoni cellulari. In mezzo alla chiesa, un uomo cieco o abbagliato da paradisi virtuali. La mostra contiene anche un omaggio a Hieronymus Bosch, artista fiammingo che più di tutti ha approfondito il tema del Paradiso terrestre.
Hai esposto di recente in Israele. Che ricordo conservi di quella terra martoriata? Pensi che l’arte e gli artisti debbano prendere posizione contro l’orrore del terrorismo e della guerra?
Penso che uno dei compiti dell’arte contemporanea sia anche la critica sociale. È naturale schierarsi contro terrorismo e guerra. Per quanto riguarda Israele e Palestina, i problemi non son mai mancati e le ferite sono tremendamente profonde. Ci sono stato alcune volte e conosco anche gente che ci vive. Non oso prendere posizione perché la situazione è tremendamente complessa e gli ultimi avvenimenti la hanno aggravata di parecchio.
La domanda “cos’è la scultura?”, ha scritto Anthony Gormley, è strettamente legata a un’altra questione: “cos’è un essere umano?”. Cosa risponderesti a questi due interrogativi?
Sono due domande impegnative. Arturo Martini disse che la scultura è lingua morta, ma con il tempo questa frase è sicuramente stata confutata. Per provare a offrire una risposta alla domanda su cosa sia un essere umano sono stati scritti libri su libri; io a rispondere in poche frasi proprio non riesco.
Lo fai col tuo lavoro. A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
In questo periodo sto iniziando a lavorare per una personale prevista per l’autunno 2024 presso lo Studio Arte Raffaelli a Trento.