Il soggetto di Aron Demetz è il corpo, talvolta un corpo assente, talaltra sovrabbondante di materia. Ne parliamo in questa ventottesima puntata di progetto (s)cultura.
Nella tua terra d’origine, la Val Gardena, la scultura è di casa. Quando e come hai iniziato a praticarla?
Subito dopo le medie, aspettando di iniziare la scuola di odontoiatria, un po’ per sbaglio un po’ per comodità mi mandarono alla scuola d’arte, dove rimasi prigioniero dell’arte e mi innamorai del mestiere di scultore.
Distaccarti dall’iconografia tradizionale, dalle edicole votive e dai Crocifissi di montagna non sarà stata impresa facile. Come ci sei riuscito?
Non credo sia importante distaccarsi, la difficoltà sta nel comprendere quale sia stato il significato delle edicole o dei Crocifissi quando furono creati, e nel verificare se la scelta di usare, o di rivisitare, una certa iconografia, possa avere un senso nel presente. Ogni artista adotta il proprio linguaggio; guardare al passato implica grandi difficoltà e il rischio di fallire, ma coinvolge e impegna, cosa che negli ultimi settant’anni sembra non avere alcun valore.
Chi sono i tuoi maestri, nell’arte e nella vita?
Provo a rimanere sveglio, a cogliere ciò che avviene attorno a me; come credo accada a tutti, i miei maestri sono vicini e lontani; sono i grandi della musica, dell’arte, della scienza, e, al tempo stesso, gente che vive dietro la porta di casa mia.
In quali fasi divideresti il tuo lavoro?
Credo si possa parlare di una fase iniziale, più figurativa e introspettiva, che va pressappoco dal ‘97 al 2005, seguita dall’uso del corpo come veicolo per contenuti, confronti e comparazioni, cercando la coniugazione tra figura materia e spazio.
Quanto conta il tuo studio – una vecchia fabbrica di gatti delle nevi – nella realizzazione delle tue sculture?
Nella mia vita ho cambiato veramente tanti studi; ognuno di essi aveva delle qualità, e se non c’erano, venivano create. Credo che uno studio necessiti di un certo tempo per trovare la sua anima, per prendere patina, vita ed energia, e tutto è dato dal fare; solo dopo che ci hai lavorato a lungo, diventa capace di raccontare una storia. Sicuramente le dimensioni aiutano; non tutti i luoghi consentono di realizzare ciò che si vuole.
Parliamo del processo. L’uso di robot e di strumenti tecnologici è solo una semplificazione o ti consente effetti che non potresti altrimenti conseguire?
Il robot è solo uno strumento e come tale offre delle possibilità, che vanno valutate e sfruttate a favore dell’opera. Se usandolo l’idea dell’artista guadagna in leggibilità, lo strumento ha fatto un buon lavoro. Se lo si usa semplicemente per semplificarsi la vita, si contribuisce all’appiattimento insopportabile così diffuso in giro.
Il tuo soggetto è il corpo: talvolta un corpo assente, come nella scultura omaggio a Ötzi che hai creato per Bolzano.
A volte l’assenza rivela una presenza ancora più intensa di ciò che si può toccare. Quando mi è arrivata la richiesta di creare un monumento a Ötzi su una rotonda stradale, spazi da cui mi sono sempre tenuto a distanza per le difficoltà quasi insormontabili che comportano, ho fatto sapere al committente, che probabilmente si aspettava una rappresentazione di tipo figurativo, che avrei presentato una proposta solo quando ne fossi stato davvero convinto. Un aspetto che mi intrigava parecchio era la posizione nella quale Ötzi è stato ritrovato, con le braccia tese: è una posa molto particolare e riconoscibile, ma mi sono subito reso conto che non avrei potuto tradurla in scultura, a meno che non la avessi usata per creare la sua tomba, il luogo dove era stato sepolto per cinquemila anni. Perciò ho pensato di imprimerla su una sorta di iceberg di marmo bianco, immagine della montagna che ha ridato alla luce il corpo di Ötzi in questi tempi di riscaldamento globale.
La scultura, nella sua accezione classica, è arte del levare. Tu però non ti accontenti: ricopri le superfici delle statue di argento o resina, le bruci o le lasci a un grado di finitura che fa nascere il sospetto che, su di esse, sia cresciuta nottetempo una strana peluria…
Sono convinto vi siano occasioni in cui il levare e l’aggiungere possano contaminarsi positivamente; non sempre funziona, ma vale la pena tentare. Liberare la natura dalla sua condizione di partenza è, più che un movente, una necessità.
Qual è il tuo rapporto con la natura? Pensi che l’uomo ne faccia parte o si muova piuttosto, in questo pazzo mondo, su una specie di ufo?
Che l’uomo ne faccia parte non c’è dubbio, e ha con essa un legame molto più profondo di quello che si pensa; l’astronave in cui crediamo di muoverci, viaggia purtroppo senza conducente.
Le tue statue, soprattutto quando le esponi in serie, mi hanno sempre fatto pensare a un bosco.
Concordo. È questo il motivo per cui, le rare volte in cui creo dei gruppi di figure, sono solito collocarle su dei tronchi, lasciando la possibilità di leggerle come immagini tanto della vita degli alberi quanto di quella degli uomini. Come gli alberi, che rimangono per sempre fissi al suolo, aggrappati alle proprie radici, sono quasi del tutto prive di movimento potenziale.
Come ti relazioni col passato?
Il passato inevitabilmente ritorna. Spetta all’artista coglierne il messaggio, dialogando con esso o provando a interpretarlo. Molte cose nel passato sono state dette male, o addirittura non dette, e qui abbiamo la possibilità di aggiungere ciò che è stato dimenticato.
Dal passato al presente: pensi che l’arte di oggi risponda esclusivamente a un bisogno individuale o abbia qualcosa da dire sui grandi temi della storia, dalla guerra in Ucraina agli attentati e ai bombardamenti in Palestina?
Viste da lontano, le situazioni dell’Ucraina o della Palestina possono richiamare l’attenzione degli artisti ma, al cospetto dell’enormità e della tragicità di quegli eventi, ogni azione artistica a me sembra banale. Ciascun artista scelga pure la sua posizione politica, tacita o gridata che sia. Io parlo dell’uomo, della sua incapacità di imparare, della sua speranza, incomprensione, ricerca, curiosità e metamorfosi.
La scultura italiana oggi: è viva o morta?
Fatte salve alcune eccezioni, attraversiamo uno strano periodo, stagnante e superficiale per tutta l’arte, non solo per la scultura; penso però che tale situazione sia l’annuncio di cambiamenti che faranno bene all’arte, e non solo.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Al mio lavoro, come sempre.