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In The Sign. Rise and shine, industrial design!

Gio Ponti, Eclissi – prodotto da Casati, Italia, 1950-1958 e attuale
Con questo primo contributo iniziamo oggi In The Sign, una rubrica realizzata dal team di LCA Studio Legale che avrà come focus – a cadenza mensile, circa – una serie di approfondimenti dedicati al tema dell’industrial design, i cui protaganisti saranno quegli oggetti che, date le loro caratteristiche creative e il loro “valore artistico” sono state ritenuti tutelabili anche ai sensi della legge sul diritto d’autore. In the Sign indagherà i casi “storici” di riconoscimento della tutela di questi prodotti, accendendo le luci su un settore sicuramente di nicchia e del quale, generalmente, siamo “a digiuno” di informazioni ma che, in realtà, è il vero ponte tra design e arte.

Il noto designer statunitense Paul Rand una volta ha detto: “L’arte è un’idea che ha trovato la sua perfetta espressione visiva. E il design è il veicolo con cui questa espressione è resa possibile. L’arte è un sostantivo e il design è un nome e anche un verbo. L’arte è un prodotto e il design è un processo. Il design è il fondamento di tutte le arti.”.
Si tratta di una visione che, con gli occhi dell’uomo (e donna) del ventunesimo secolo, non possiamo che sposare. Eppure, almeno sotto il profilo legale, il riconoscimento a favore del design (anche) di un valore che lo avvicinasse all’arte non è sempre esistito.
Che il design potesse essere “arte” (ovvero, che potesse avere la stessa tutela concessa alle opere d’arte, riconosciuta in Italia dalla legge sul diritto d’autore) è un traguardo che è stato raggiunto dopo un lungo percorso di presa di coscienza – come spesso accade, prima sociale e poi legislativo.
Inizialmente, la tutela autorale era concessa solamente alle “opere d’arte figurative applicate all’industria”, definizione che imponeva, per ottenere questa protezione, di essere in grado di individuare un c.d. valore artistico scindibile dal carattere industriale dell’oggetto di design “in sè”. Una prevalenza, insomma, di quel quid pluris che “definisce” l’arte rispetto alla “funzione pratica” del prodotto che la incorpora. Circostanza che, a lungo andare, aveva sempre di più finito per precludere questo riconoscimento a favore delle opere di design nel loro complesso. Si trattava, come intuibile, di una definizione talmente “stretta” che – appunto – a potervi rientrare erano quasi esclusivamente alcuni specifici dettagli del prodotto di design, il cui “valore artistico” doveva esistere a prescindere dalla loro inclusione all’interno del prodotto stesso.

Snowsound, pannello fonoassorbente di Caimi Brevetti in collaborazione con eredi Gio Ponti, 2018

Una visione che lasciava fuori dal novero un numero importante di creazioni che, per il solo fatto di essere anche prodotti dotati di una utilità pratica e utilizzati nella vita quotidiana dei loro possessori per soddisfare uno specifico bisogno, venivano penalizzate da questa interpretazione.
È dal 2001 che questo approccio, grazie alla normativa comunitaria, è radicalmente cambiato. Da opere dell’ingegno tutelabili solo come disegni e modelli registrati (quindi, comunque proteggibili, ma non al pari di una “vera” opera d’arte) si è passati alla tutelabilità delle “opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico”.
Se si considera che il carattere creativo è requisito che viene richiesto anche per la tutela dei design “non-opere-d’arte”, si può anche comprendere quale centralità abbia assunto, nel corso degli anni successivi, la ricerca della perfetta definizione del concetto di “valore artistico”.
Il mondo legale di recente è stato “piegato ma non spezzato” da una decisione della Corte di Giustizia che ha (inizialmente) lasciato qualche dubbio interpretativo, legato alla effettiva liceità del legare la tutela autorale di un’opera di design a quello che potrebbe essere percepito come un parametro esclusivamente “soggettivo” quale, erroneamente, è stato interpretato quello del valore artistico.

Gio Ponti, sedie, Prod. Cassina, Italia, 1960 ca.

Vale la pena ricordare, quindi, che la valutazione circa questo requisito, nelle corti di tribunale, è assai meno romantica di quanto il nome potrebbe suggerire.
Il “fattore soggettivo” ha certamente un suo ruolo: è importante, infatti, valutare le emozioni estetiche che l’oggetto di design è in grado di suscitare nonchè se sia dotato di uno spiccato carattere soggettivo in relazione alle forme che, normalmente, un prodotto analogo ha/avrebbe.
Lasciate da parte, però, le inclinazioni e gusti del pubblico, ormai da anni di consolidata giurisprudenza i giudici hanno individuato alcuni importanti parametri oggettivi ritenuti dei buoni “indicatori” in forza dei quali ritenere o meno sussistente il valore artistico di un’opera di design.
Premi vinti (ovviamente, con rilevanza riguardo al numero e al soggetto erogatore degli stessi); esposizioni in musei, rassegne e manifestazioni artistiche; recensioni critiche; inclusione in opere di esperti; notorietà dell’artista. Sono tutte “caselle” che bisogna essere sicuri di saper spuntare, prima di pensare di intraprendere un’azione giudiziaria finalizzata ad ottenere questo tipo di difficile (ma non impossibile) tutela.

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