Michele Ciacciofera racconta la nascita e lo sviluppo della mostra Condensare l’infinito, adesso – e fino al 7 aprile 2024 – al MA*GA di Gallarate.
L’arte di Michele Ciacciofera nasce da un incontro e mira a stimolare un dialogo. In questi termini, ma non solo, la sua poetica si fonda sull’empatia, sulla sensibilità, sulla disponibilità ad ampliare il proprio spirito. Lui stesso l’ha fatto, seguendo due direzioni: la prima dall’esterno verso l’interno, scovando e ammirando i più importanti megaliti e monoliti d’Europa, residuo di epoche passate ma anche scrigno premonitore di istanze artistiche contemporanee; e poi dall’interno verso l’esterno, traducendo le sensazioni spirituali dei Menhir in opere d’arte che ne ereditassero lo slancio verso l’infinito. Tappa finale di questo percorso è il confronto ingaggiato con l’osservatore, a sua volta chiamato a raccogliere la stessa suggestione.
Una dinamica che l’artista vuole riproporre al MA*GA di Gallarate, dove è in scena con la mostra Condensare l’infinito. In esposizione il risultato del viaggio che ha condotto – partendo dalla Sardegna, percorrendo l’arco alpino e giungendo in Bretagna e infine in Scozia – alla ricerca di quelle strutture antiche, capaci di conferire sacralità e riconoscibilità a determinati territori, nonché simboli immortali di un’importante rivoluzione tecnologica, sociale, culturale ed economica quale quella che contraddistinse il periodo neolitico, o ancora civiltà come quella Etrusca, Fenicia o Egiziana.
Le opere, esito del percorso fisico ed esistenziale compiuto, si distribuiscono su tre piani del Museo e consistono in una serie di sculture in vetro, piccole scatole dal sapore votivo, nove coloratissime stele, un’opera sonora appositamente creata per l’occasione e un’installazione site-specific in ceramica e muschio naturale in dialogo con una opera pittorica, sotto forma di trittico, che rimanda alla mostra parallela ospitata da BUILDING TERZO PIANO a Milano (16 gennaio-17 febbraio 2024). Qui Ciacciofera espone una serie di sculture in vetro policromo di Murano, già presentate al Petit Palais di Parigi (FIAC 2019) e un dipinto di grande formato.
Come mai hai indirizzato il tuo viaggio proprio in Sardegna, Alpi, Bretagna e Scozia?
Mi interessava tracciare una linea che dal cuore del Mediterraneo salisse fino al nord dell’Europa, in un movimento verticale che introducesse a quella stessa verticalità che nei territori in questione è rappresentata dai Menhir, costruzioni megalitiche che in forme e soluzioni diverse troviamo in moltissimi luoghi. Il loro significato trasversale, che unisce la dimensione terrena a quella divina, accomuna l’arte arcaica a quella contemporanea.
Quali sono le caratteristiche dei Menhir? Ci sono vari tipi di forme megalitiche?
La differenza principale non sta tanto nella forma, che pure diverge per levigatezza o dimensione, quanto più nel luogo in cui vengono posizionati e nella soluzione in cui vengono disposti. Alcune stele sono state ritrovate isolate, in luoghi distanti dai passaggi o dai centri abitati. Altre invece sono collocate in punti precisi, visibili, studiati, in conformazioni gruppali che seguono un certo dettato estetico-geometrico e cercano un dialogo reale con il contesto ambientale che le circonda. Sono quasi delle forme arcaiche di Land Art.
Dall’antico ai giorni nostri, dunque.
Esattamente. La forma del Menhir si pone in qualche modo anche nel territorio dell’astrazione, nella misura in cui in fondo non si tratta che di una linea; e da qui, se vogliamo, si lega anche al minimalismo per l’essenzialità, se non gesto (spesso si tratta di megaliti), quantomeno nella forma. É dunque affascinante come certe espressioni proto artistiche siano resistite sia nell’idea che nella sostanza, in quanto tutte le civiltà che si sono susseguite le hanno tendenzialmente preservate. Gli esemplari andati distrutti molto spesso sono vittime delle intemperie, della natura che è sempre sopra a tutti.
Come avviene il percorso di interiorizzazione e poi di svelamento nell’opera?
Il Mehnir mi fa pensare al concetto di tempo lungo, di un tempo che non riguarda solo il nostro passato personale, ma che si riallaccia con le nostre origini. E così l’arte diventa un veicolo di spiritualità, sia come slancio dell’uomo verso l’ultraterreno che come punto di ricezione dei messaggi di un altrove imprecisato. Di qui ai misteri legati alla loro creazione, alle loro funzione pratica e spirituale. Per quanto mi riguarda, questo ha risuonato immediatamente in me. Anche grazie all’imponenza, al senso di sublimazione di qualcosa, ha attivato un processo di interiorizzazione immediato e continuo.
Un’arte a stretto contatto con il tempo e la natura, anche in un senso pratico.
L’artista non deve limitarsi a teorizzare concetti come il rispetto della natura e la preservazione dell’ambiente, ma anche nella pratica, nel gesto dell’arte, deve avere la forza di operare in tal senso. Per esempio, per anni ho conservato una serie di materiali di scarto, come gli imballaggi di cartone, e li ho infine riutilizzati per assemblare le stele che sono ora esposte in mostra. Così facendo, esse hanno guadagnato sia una dimensione sociale, ideale, ma anche arricchita nei termini concettuali di materiale che vive da tempo, che ha vissuto altre vite, che conserva memorie passate. Una dimensione temporale che si aggiunge a quella fisica.
Quale altro materiale prediligi?
La ceramica, insieme all’argilla, incarna il concetto di memoria, come anche la terracotta. É un materiale che si lascia imprimere, che accoglie le storie e gli interventi che subisce per poi custodirle. Allo stesso modo fa la pietra, anche se rappresenta una memoria geologica, più data che creata.
Che ruolo ha la componente sonora in mostra?
La componente sonora aggiunge una dinamica all’esperienza, acuisce la connessione empatica che vorrei sviluppare con il visitatore. Sono tutti suoni naturali, prelevati dalla natura e poi rielaborati in chiave elettronica. Diventano un altro modo per rievocare l’incontro con il Menhir, concorrono alla creazione di una dimensione spirituale che evochi una sensazione d’infinito.
Cosa intendi per infinito?
Il mio è uno sguardo laico sulla spiritualità, sulla costanza con cui essa si è presentata all’uomo. Non c’è una ricaduta devozionale, non mi riferisco a culti teorizzati e secolarizzati, bensì all’istintuale spinta verso il divino.
Pensi che esso possa avere una ricaduta sul presente?
Certo. La dimensione spirituale può portarci a sviluppare un’idea di futuro che sia armonica, equilibrata, sia nei rapporti tra società e storia, politica, natura. Può attivare un cambiamento che nasce dal singolo per poi allargarsi. L’uomo davanti al Menhir, alla sua imponenza fisica e storica, solo girandosi di spalle può non percepire il richiamo a cui esso ci invita.