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Mattia Bosco e il femminile senza tempo: Kόrai al Parco Archeologico del Colosseo

Mattia Bosco, Kórai, photo Giuseppe D’Aleo
Nel più grande tempio della Roma antica, la scultura contemporanea di Mattia Bosco incontra il femminile senza tempo nella mostra “Kόrai”. Con un progetto espositivo site specific, l’artista ha dato forma a una serie di opere che abitano uno spazio pregno di storia, dove si stratificano riti, tradizioni, usi e costumi di un’antica civiltà.

Femminile è lo spirito che anima i manufatti di Mattia Bosco, così come femminile è lo spirito atavico del luogo speciale che li ospita: il Tempio di Venere e Roma. Dodici sculture di marmi provenienti da varie regioni d’Italia richiamano i fasti dell’architettura romana d’epoca imperiale nello spazio sacro. Inaugurato nel 136 d.C., il Tempio delle due dee era il più grande edificio di culto della città eterna, rivestito di pietre preziose da ogni parte dell’Impero.

Nella nona edizione del format di ArtVerona 2021 Level 0, in cui musei e fondazioni private hanno individuato artisti in fiera da promuovere nella loro programmazione, il Parco Archeologico del Colosseo ha selezionato Mattia Bosco (in fiera con Atipografia), con l’approvazione della Direttrice Alfonsina Russo. Da qui la mostra “Kόrai”, accompagnata da un catalogo cui hanno contribuito il curatore Milovan Farronato e il filosofo Emanuele Dattilo.

Il tempo senza fine inciso nella pietra, il divino femminile di antichi culti e il viaggio nello spazio oltre le epoche: Mattia Bosco riprende le fila di una narrazione imperitura. Due Sezioni Auree e uno Stongate aprono i varchi a una strada continua, che collega passato e presente, immaginazione e realtà. Le nove Kόrai in cerchio rianimo i rituali di sacerdotesse, donne, dee riunite in un unico credo, per restituirci il racconto di un divino la cui memoria è scolpita nell’area archeologica del Colosseo. Abbiamo raggiunto l’artista per un approfondimento su “Kόrai”, visitabile fino al 3 marzo al Parco Archeologico del Colosseo.

Con la mostra “Kόrai” sei entrato in dialogo con un’area archeologica dall’enorme peso storico. Come ti sei relazionato con questo spazio? 
Fin dal primo sopralluogo al Tempio di Venere e Roma ho sentito un eccitante senso di sfida e di potenzialità. Il luogo è impressionante, con il Colosseo che si erge davanti come una montagna, e la sua storia, come dici, ha un enorme peso. Volevo trovare un modo di abitarlo, non di sfruttarlo. Non volevo competere con quella grandezza, né fare un intervento mimetico, timido, sottotono. Volevo entrare ed essere accolto, e che le mie sculture non fossero rigettate come corpi estranei. Ho scelto di lavorare con gli stessi marmi che un tempo potevano essere stati lì, e la chiave d’accesso è stata questa continuità materiale.

Nel meraviglioso tempio in cui si univano i culti di due dee, sono adiacenti le celle a loro dedicate. Hai posto le tue κόραι nello spazio votivo della Dea Roma e una Sezione Aurea in quello dedicato a Venere, perché questa scelta? 
Il tempio della Dea Roma è un luogo raccolto, chiuso su tutti i lati, e qui con le nove Kòrai disposte in cerchio ho potuto realizzare un intervento che investe tutto lo spazio architettonico, e la cosa sorprendente è che si percepisce che lì sta accadendo qualcosa, che le sculture, nonostante la loro apparente staticità stanno facendo qualcosa. E, giustamente, Milovan Farronato nel testo che ha scritto per il catalogo della mostra ha rilevato il loro carattere performativo. Sono tutte rivolte verso un centro, i loro sguardi senza occhi convergono in un punto, evocando il mundus, un varco che sembra sul punto di riaprirsi, connettendo il mondo dei vivi e quello dei morti. Il Tempio di Venere si trova proprio di fronte al Colosseo. Come una Venere, la Sezione Aurea, solitaria, attende che il suo sposo torni dai giochi, e ricorda di non dimenticare per cosa si combatte.

Mattia Bosco, Kórai, photo Giuseppe D’Aleo

Riunite in cerchio, le tue κόραι celebrano il culto della materia sotto l’egida della Dea Roma, tutte diverse in marmi e granito, tutte uguale invece nella forma, cosa rappresentano? 
Giustamente dici “le tue kòrai”, partiamo da qui. Perché ho chiamato queste sculture così, con il nome che gli antichi greci davano alle sculture di giovani fanciulle? Kòre significa appunto fanciulla. Non una fanciulla con un nome, non un ritratto, non una persona. Kòre è la fanciulla senza nome, è la “arretos kore”, la fanciulla indicibile, il femminile che ogni fanciulla incarna, a suo modo, e quel modo è unico, indicibile. Kòre è Persefone, la figlia di Demetra rapita e fatta sposa da Ade, e che il signore degli inferi non può avere che per metà dell’anno. Perfino lui non può trattenerla, non può possederla interamente, deve lasciarla uscire alla luce del sole e perderla per poi riaverla, in un’alternanza che è il ritmo delle stagioni, morte e rinascita. Le “mie kòrai” appunto sono il modo in cui io, come innumerevoli scultori prima di me, ho tentato di raffigurare l’irraffigurabile. La fanciulla indicibile è quella che tutte e nove guardano in quel centro evocato dal loro sguardo senza occhi. La fanciulla indicibile è la vita anonima e indistruttibile, che nasce senza nome, che viene nominata e assimilata da una comunità di parlanti, restando, ciò nonostante, intraducibile.

Le due opere Sezione Aurea e Stonegate ci parlano delle forme di un tempo senza inizio, di una durata che segna eternamente la pietra. Ci racconti qualcosa di più?
Insisto spesso nel dire che la pietra è tempo allo stato solido. Mettere le mani su una pietra significa toccare qualcosa di originario, di inappropriabile, e scolpirla significa partecipare alla sua infinita metamorfosi, diventare di fatto una delle forze che nel corso della sua sterminata vita minerale incontra. Per questo la scultura per me è un atto collaborativo e partecipativo, non creativo. Come ha scritto Emanuele Dattilo, nel testo per il catalogo della mostra, «si tratta di liberare la materia dalla propria soggezione alla forma, di mostrare come in ogni pietra sia la pietra stessa a lavorare metamorficamente se stessa, spesso da millenni prima che noi la potessimo vedere e toccare. Si tratta allora soltanto di accelerare, abbreviare il percorso della pietra verso se stessa. E per farlo, è necessario che la materia mostri una propria forma, che la lasci nascere dentro di sé.» Questo è quello che cerco di fare nelle sezioni auree, aiutare la pietra a partorire se stessa.  Lo Stonegate è un varco, un vuoto nella pietra che assorbe e incorpora lo spazio che lo attraversa. In questo momento sta nutrendosi del Colosseo, come un grande occhio, senza consumarlo, senza poterlo trattenere. È un occhio che digerisce il mondo che lo attraversa. E come ogni occhio, è un pezzo di mondo che vede il mondo.

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