“Nell’arte l’errore non esiste, perché la ricerca che fai non conosce traguardi né mete. Se sai già dove vuoi arrivare, non è più arte, ma cerchi solo soddisfazioni o riconoscimenti”. Ne abbiamo parlato, tra le altre cose, con lo scultore altoatesino Walter Moroder in questa trentesima puntata di progetto (s)cultura.
Sei nato in Val Gardena, patria di tanti scultori. Ti senti legato alla tua terra natale?
Sì, mi sento davvero legato a questo posto. Vivo tra queste bellissime montagne e ogni giorno è un dono. Per me è ancora più significativo abitare qui, in una zona ricca di artisti, gallerie d’arte, la Biennale Gherdëina e musicisti. È un luogo in cui l’arte gioca un ruolo importante nella società e dove posso condividere idee ed esperienze con gli amici scultori.
Quando e come hai iniziato a dedicarti alla scultura? Ricordi ancora il tuo primo lavoro?
L’arte fa parte della mia vita fin dalla nascita. Mio nonno, gli zii e mio padre erano essi stessi scultori e artisti. Uno zio ha addirittura partecipato alla Biennale di Venezia nel 1956. Sono praticamente cresciuto nella bottega di mio padre e a sette anni ho realizzato una copia in creta di un gesso raffigurante una mano. Ricordo di esserne stato molto orgoglioso, e ancora oggi lo conservo nel mio laboratorio.
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nella tua formazione?
Il primo maestro è stato sicuramente mio padre, David Moroder, da cui ho imparato il mestiere e che mi ha aperto gli occhi, indirizzandomi al mondo dell’arte. In seguito, ho conosciuto Bruno Gironcoli. È stato lui a presentare i miei lavori alle gallerie, ma senza risparmiarmi critiche molto severe, seppur sincere, che mi hanno aiutato molto a crescere e a sviluppare un mio linguaggio. Ricordo bene anche l’incontro con Franz Gertsch, il quale mi ha lasciato una profonda impressione. Gli artisti che, però, hanno influenzato maggiormente il mio percorso li ho conosciuti solo attraverso i libri: Alberto Giacometti, Mark Rothko e, in seguito, il regista Andrej Tarkovskij. L’impatto più significativo sul mio lavoro è derivato dal viaggio tra il popolo dei Toraja a Sulawesi, dove i defunti vengono scolpiti in legno dalla persona più vicina e non necessariamente dal miglior scultore.
Lo studio, per un artista, è di solito più di un semplice luogo di lavoro. Per molti è un pensatoio. Vale lo stesso anche per te?
Certo! Sono convinto che chi fa arte non debba solo lavorare e produrre, ma soprattutto osservare, pensare e mettersi continuamente in discussione. Il mio studio è il posto dove mi posso ritirare, dove posso riflettere, leggere e in cui, allo stesso tempo, posso “perdermi”.
Come nasce una tua scultura dall’idea, al primo abbozzo, alla realizzazione finale?
Inizio sempre da uno schizzo in plastilina, che mi facilita nel processo di ingrandimento e nel successivo adattamento a una dimensione naturale. Aggredisco quindi il legno utilizzando la motosega, gli scalpelli e le lime. Nel frattempo, prendo occasionalmente del colore e dipingo l’intera composizione. Questo mi aiuta a mantenere una certa distanza da ciò che sto creando, permettendomi di osservarlo e percepirlo in una luce nuova. Questa pratica apre la mia mente e mi libera da eventuali timori.
Qual è il tuo rapporto con l’errore?
Nell’arte l’errore non esiste, perché la ricerca che fai non conosce traguardi né mete. Se sai già dove vuoi arrivare, non è più arte, ma cerchi solo soddisfazioni o riconoscimenti. Se hai il coraggio di andare alla scoperta dell’indefinito, forse troverai la ricompensa sperata.
In principio fu l’uomo. L’unico essere in natura (o quasi) che, come gli alberi, si erge dritto verso il cielo…
In principio non ci fu l’uomo! [ride]
Intendevo nella tua scultura! [ride]
Sì, hai ragione. Mi interessa molto il tema della verticalità, come la si può osservare nelle piante. La persona che riesce a stare in bilico e a diventare così un punto di riferimento nel paesaggio è al centro della mia attenzione.
Le tue figure umane ricordano appunto delle piante: immobili, fuori dal tempo, con un’anatomia ridotta al minimo.
Le mie sculture non hanno niente di umano, anche se ne hanno l’apparenza. Io le vedo come rappresentazioni astratte che ricordano esseri umani. Dato che non mi interessa l’anatomia, esse non hanno alcuna personalità e diventano, se così si può dire, simulacri fuori dal tempo dell’idea dell’uomo.
Stando così le cose, è naturale soffermarsi sui materiali, o sull’astratta scansione dei volumi, o sulle parti del corpo – le mani, il volto – che di solito completi.
Queste sculture sono per me come delle bottiglie o dei vasi con una funzione: farsi portatrici di un contenuto. Alla fine, quello che conta è solamente il contenuto e non una rappresentazione accurata di un bel viso, di mani, piedi o vestiti. Per raggiungere questi risultati, è però importante avere una grande sensibilità per le proporzioni, i pesi, i dettagli e le superfici.
I tuoi soggetti sono quasi sempre donne. Per quale ragione?
Mi fanno sempre questa domanda, ma finora non sono riuscito a trovare una risposta convincente. Il fatto è che ho spesso iniziato una scultura pensando di realizzare una figura maschile, ma alla fine il risultato richiamava comunque una forma femminile. Forse ciò accade perché la donna mi sembra più sensibile e attenta al suo mondo interiore, cioè a ciò che maggiormente mi interessa.
Il risultato è sempre e comunque il mistero: avvicinandosi alle statue, si ha come l’impressione di guardarsi allo specchio, ma senza riconoscersi del tutto… E la morte è dietro l’angolo.
È proprio ciò che mi affascina quando creo una scultura. L’obiettivo è realizzare una figura di dimensioni naturali che si pari di fronte a noi e funga da mezzo per riflettersi dentro, per percepire e comprendere chi siamo. È come un incontro con la propria anima. Mi interessa creare forme neutrali, in modo che ci siano diverse interpretazioni possibili. Mi sembra che ciò funzioni, perché ho spesso notato che le persone aperte a dialogare con la scultura riferiscono poi di sensazioni molto diverse, talvolta addirittura opposte rispetto agli altri. Penso comunque che l’arte possa essere percepita, compresa e sentita esclusivamente in modo individuale. Se chi osserva prova paura guardando una di queste sculture, si tratta solo della paura che ha dentro di sé, non di quella che l’artista ha inteso veicolare.
Nella tua arte mi pare evidente l’amore per la scultura arcaica. Qual è il tuo rapporto con la tradizione?
Il mio rapporto con la tradizione è molto ambiguo. Da una parte mi crea tanti problemi perché è molto restrittiva e non permette grandi evoluzioni ed esperimenti. D’altro canto, è solo accettando la tradizione dalla quale provengo che provo leggerezza nel fare e smetto di concentrarmi nel negare il mio passato. Al giorno d’oggi l’arte che mi interessa di più è comunque quella arcaica: un’arte priva di tutti gli umori, della vanità, dell’egoismo e delle innumerevoli virtù delle quali andiamo fieri. L’ arte arcaica è radicata nel più profondo e sta vicina alla verità e alla realtà. Non vuole farci sentire grandi e orgogliosi, semplicemente puri.
Molti giovani vedono in te una nuova possibilità per la figurazione. Cosa consiglieresti a chi volesse seguire le tue orme?
Di non seguire le mie orme, ma di andare a scavare (pur facendo grandi sforzi) alla ricerca delle proprie radici e di portarle a luce. Tutti noi siamo unici e se la lingua che parliamo non ha intenzioni nascoste, cioè non serve a sentirci speciali, ci muoviamo in direzione della verità individuale che è in noi. È proprio questa tensione, se ci pensi, a renderci speciali veramente.
La scultura è per te un fine o semplicemente un mezzo?
Per me è un mezzo per realizzare e sperimentare ciò in cui credo e che mi fa sentire vivo. Se la scultura è il fine, allora stiamo parlando di tecnica e di soddisfazione personale. Al momento mi avvalgo della scultura, perché è il linguaggio che ho imparato meglio e mi è più vicino. Spesso penso però di usare la videocamera, la macchina fotografica o la pittura a olio. Dipende dalla tematica che mi interessa e dal medium che mi sembra più efficace.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Attualmente sto preparando una mostra personale presso la Galleria Baumgarten in Germania. Esporre le opere a cui ho dedicato tanto tempo è sempre una sfida, un’incognita che affronti senza sapere quale sarà il riscontro. Tuttavia, è un’esperienza molto emozionante, che mi spinge a dare il massimo. Insieme al critico d’arte Markus Klammer, stiamo poi lavorando da più di due anni a un libro sul mio lavoro. È un progetto impegnativo, che richiede estrema concentrazione, energia e ore su ore di discussione. Abbiamo impiegato molto tempo per approfondire le mie motivazioni, i miei temi, i miei interessi. Sono comunque contento di averci messo tanto, poiché un risultato valido, completo seppur complesso nella sua progettualità e stesura, vale di più di un prodotto mediocre, rispondente ai ritmi veloci del contemporaneo.