Una mostra concepita come un racconto che si dipana in un tempo circolare, dove passato e presente sono stratificati in immagini metafisiche. La personale del pittore Manuele Cerutti (1976), intitolata “Quem Genuit Adoravit” (“Adorò colui che generò”) aperta alla Collezione Maramotti fino al 28 luglio, è un esempio interessante di una scrittura espositiva capace di valorizzare nella maniera più efficace la ricerca dell’artista, chiamato per la prima volta a confrontarsi con opere di grandi dimensioni.
Una narrazione che comincia dall’allestimento di una serie di 31 opere su carta – matita, china ed acquarello – posizionate su un’unica parete, a comporre una sorta di raffinato storyboard, un’introduzione ma anche un racconto a sé stante, dove ogni elemento vive da solo ma si combina con gli altri per suggerire un immaginario polifonico simile a Il gioco del mondo (1963) , celebre romanzo dello scrittore argentino Julio Cortázar che può essere letto a diversi livelli. Qui ogni disegno ci introduce all’universo di Cerutti, dove elementi e situazioni reali – la nascita di un figlio – si soprappongono a suggestioni di luoghi, spazi e riferimenti legati alla storia dell’arte. Nella dimensione intima di un orizzonte visivo unitario il protagonista è un personaggio marginale – tra il pellegrino e il contadino – con le sembianze dello stesso artista, che vediamo impegnato in gesta misteriose, legate ad un telo di plastica nera per la tecnica della “pacciamatura”, associato ad una ferita alla gamba, condizione per una sorta di partenogenesi del protagonista, dal quale scaturisce suo figlio neonato.
Se i disegni costituiscono un progetto autonomo, le opere esposte nella Pattern room invitano lo spettatore all’atmosfera sospesa e metafisica di una narrazione distopica, che si coagula nelle sei grandi tele, precedute da uno Studio di figura (2019), un rigoroso d’après tratto da un’opera di Italo Cremona custodita alla Gam di Torino. Qui il racconto si dispiega in tutta la sua forza poetica ed acquisisce quasi una complessità rinascimentale, grazie alla compresenza di episodi diversi, in una simultaneità solenne che ricorda nella sua struttura compositiva un enigmatico capolavoro come La morte di Procri (1495) di Piero di Cosimo. Una polifonia di significati annunciata e valorizzata da un cromatismo rarefatto e ricercato nella sua essenzialità – dovuta ad un uso prevalente di terre, spiega l’artista – che lega tra di loro, come capitoli di un romanzo a chiave, 4 delle opere più incisive della sala. Si tratta di Meriti e colpe (2022-2024), Ramo delle confluenze (2023-2024), Perdere l’eroe conservare le ferite (2023-2024) e infine Tutte le mani dormono (2023-2024), forse l’opera più suggestiva dell’intera mostra, che nella sua precisione e compiutezza lascia presagire nuovi sviluppi della ricerca di Cerutti, soprattutto nel valore simbolico degli oggetti presenti nel dipinto.
Con una capacità di fondere una contemporaneità quotidiana e privata – “questi paesaggi anonimi alla periferia di Torino, tra boschi e cavalcavia in cemento, sono i luoghi dove compio lunghe passeggiate”, spiega l’artista – con la dimensione oggettiva della pittura italiana e fiamminga del Quattrocento, da Andrea Mantegna a Jan Van Eyck, l’arte di Cerutti propone una temporalità sospesa ed enigmatica nella sua indefinizione, basata non sulla citazione bensì sulla compenetrazione tra epoche e stili. Una sorta di “fusione fredda” tra il realismo magico di Oppi e Casorati e i paesaggi sfumati di Antonello da Messina o Vittore Carpaccio, che rivelano i loro dettagli, mai insignificanti, solo ad uno sguardo attento ed allenato. Un’arte discreta e sapiente che colloca Manuele Cerutti tra i pittori più interessanti e maturi della sua generazione.