La settimana dell’arte di Hong Kong comincia con un forum in grande stile: l’Hong Kong International Cultural Summit, una maratona di tre giorni e cinque panels nei tre principali centri dell’arte del distretto culturale di West Kowloon, ovvero il grandioso parco di 40 ettari ridato alla città che ospita – tra gli altri – il teatro e sala di concerti Xiqu Centre (nato anche per promuovere l’opera cinese), il museo M+ e l’Hong Kong Palace Museum
Sotto il tema di “Connecting Cultures – Bridging Times”, si tratta del primo summit internazionale, uno dei più grandi mai realizzati qui, che vuole ridefinire Hong Kong come la città-ponte tra Oriente e Occidente, centro degli affari culturali e culturalmente connessa con il mondo. «Hong Kong è sulla strada per diventare la prima città d’arte e culturale dell’Asia, grazie alla sua libera economia», ricorda John Lee, capo della Regione Speciale. D’altronde, quando ci sono di mezzo grandi capitali parlare di “sistemi culturali” viene anche più facile, anche perché in fondo si tratta di strategie economiche.
E infatti da questi parti c’è la volontà non mascherata di rimarcare la potenza e, soprattutto, la posizione globale di Hong Kong rispetto ai centri nevralgici del globo, dall’Europa a Los Angeles, dal Sud Est Asiatico al Giappone: tra i partner che hanno siglato accordi con West Kowloon ci sono infatti il Museo Nazionale del Palazzo di Versailles, il Museo Picasso e il Centre Pompidou, per esempio, ma anche il Prado di Madrid, la Tate e il Victoria & Albert di Londra, il Getty Institute o il Qatar Museum. Risultato scontato? La partita del futuro dell’arte globale si giocherà tra Asia, Medio Oriente e Francia con pochissime variabili, almeno stando a queste previsioni.
Betty Fung, CEO di WestK parla di un “paesaggio” per connettere culture e diversità, e sciorina tutti i dati del complesso – un vero e proprio playground metropolitano, compresi i metri quadrati delle singole strutture.
Gli fa eco anche Henry Tang, Presidente del West Kowloon Authority, che non può che parlare di visioni del futuro in nome della cultura, in stretta relazione con il governo di Hong Kong.
D’altronde i numeri di WestK sono piuttosto chiari: dopo la riapertura post-pandemia, nel 2022, sono stati 2 milioni i visitatori che hanno visitato il distretto, rendendo M+ il secondo museo più visitato in Asia, e tra i dieci più visitati al mondo.
Il 2024, inoltre, segna anche l’anno di cooperazione diplomatica tra Francia e Hong Kong. La grandeur, ma in maniera politicamente corretta bisogna chiamarla “nuova cooperazione”, si manifesta un po’ ovunque qui: con la mostra “The Hong Kong Jockey Club Series: Noir & Blanc—A Story of Photography”, in corso all’M+ in collaborazione con la Biblioteca nazionale di Francia, ma anche con l’arrivo di Picasso a Hong Kong nel 2025, per la prima volta in Asia.
Insomma, il miglior biglietto da visita è servito, e i crolli che hanno accompagnato l’economia cinese negli ultimi tempi – tra cui il fallimento di Evergrande, non sono argomenti contemplati nelle varie presentazioni che sembrano fare da culla al “giardino degli affari” in cui si specchia la metropoli asiatica. A supporto di questa teoria, il tema del primo panel è stato proprio quello dei “distretti culturali”.
Le parole d’ordine? Le solite: tutela, innovazione, attivazione, experiences, scambio di idee, immersività, spazio – perché quello tra gli edifici è importante quanto l’area degli edifici stessi – proiezioni di film, festival della differenza, prendersi un caffè, rilassarsi, fare un po’ di shopping e, ovviamente, ecologia e sostenibilità che devono andare di pari passo con l’atto di costruire, costruire, costruire…
Da Londra (raccontando il caso dell’East Bank con Tim Reeve, direttore del distretto e del V&A) a Melbourne (con Katrina Sedgwick, a capo del MAPC, che comprende Campus universitario, National Gallery e NVG Gallery, tra le altre) fino a Doha, (Shaika Al-Nassr a raccontare del Qatar Cultural District nato sul modello dell’isola dei musei di Berlino, che entro il 2030 ospiterà qualcosa come 10 istituzioni), la più convincente ci è sembrata Akiko Miki, direttrice del Benesse Art Site dell’isola di Naoshima, in Giappone: questo “distretto culturale” appare realmente come una simbiosi tra arte, architettura, natura e comunità, tanto nell’antica idea di recuperare alcuni tratti di questa piccola isola che fu una vera e propria discarica dal 1975 al 1990, quanto nell’impostazione totalmente mimetica dei progetti, con le architetture rivelatorie di Tadao Ando e le gallerie commissionate a Lee Ufan o Hiroshi Sugimoto, solo per dirne un paio. Una mosca abbastanza bianca, perché se Hong Kong si pone come un avamposto di incroci e connessioni, gli “spazi della cultura” sono ormai sbandieratamente dei colossali ambienti per quello che è il consumo del tempo libero.
D’altronde, il messaggio d’ordinanza rimarcato in più di un intervento è stato: Please, spend your money. Se da queste parti, meglio.