Ha esplicitato la possibilità di una visione altra la recente mostra di Irene Fenara (Bologna, 1990) presso Galleria Zero a Milano (Grandi Lucenti, 8 febbraio – 30 marzo, 2024).
Seguendo il margine di libertà, che è proprio della sua opera, nel dare corpo a quelle immagini che non siamo noi – gli esseri umani – a determinare. E ci risulterà forse strano, poiché fuori controllo e in quanto noi stessi determinati dall’assillo di voler stabilire le regole del gioco. Sta di fatto che la tempesta allestita nella parte sinistra del piano ribassato della galleria (Supervision (Storm), 2024), non è l’artista ad averla osservata, ma una telecamera di sorveglianza.
Un’immagine tra le tante, ora recuperata sfruttando le password disponibili in rete per l’accesso da remoto a tali dispositivi. Un video in loop di 14 minuti e 43 secondi soggiogato dal tempo, da quei passi prospettici che si regalano nel divenire, giacché recuperati dettaglio per dettaglio, glitch dopo glitch, mentre l’intero della perturbazione raggiunge poco a poco il suo apice, per poi svanire e, di fatto, ricominciare. È una visione nuova? “È diversa”, affermerebbe con semplicità l’artista. Poiché la diversità presuppone il gusto di una ricerca che possa trovare l’eccezione e, nel suo caso specifico, l’eccezione di ciò che “non è mai veduto”.
Vedere, osservare, guardare, nel senso etimologico di vigilanza e di cura, di attenzione e di guardia. Perché l’arte, se non con questo scopo? Per vedere poi cosa, in quale modo? È solo indagine, solo meraviglia? La verità, forse, è che non vi è un solo modo di vedere, ma una modalità di osservazione che, anche se programmata, esiste per se stessa. Le cose si danno a vedere, e questo è certo, ma c’è di contro l’evenienza di ciò che vede. L’uno e l’altro, il guardare e il guardato, anche là dove si tratta di macchine e non per forza di persone.
Ecco, dunque, ciò che vince, il resto e la rimanenza, la plausibilità visiva di una telecamera di sorveglianza che coglie il mondo secondo le sue regole; secondo le imperfezioni e gli errori di sistema ad essa connaturati. L’artista non fa altro che andare a vedere, raccogliere e poi concretizzare quel dato che ultimamente poco ci appartiene. Virato nei colori, talvolta sfumato, impreciso e approssimativo, come imprecisa e approssimativa può essere la sorte di ogni visione.
Ciononostante, una macchina vede, questo è l’assunto di partenza. Incipit di una pratica poetica che incontra il suo focus non “nel cosa”, ma “nel come”. A partire da sistematiche operazioni di salvataggio e di recupero, prima che la conservazione automatica inizi il processo di rimozione e l’immagine registrata svanisca definitivamente. E basta soffermarsi lungo tutta la serie Supervision, lungo quei quadri che altro non sono se non fotografie, fermo immagine e still da video, per accorgersi quanto sia vera la capacità dell’artista non tanto di creare, ma di cogliere innanzitutto e di restituire in forma fruibile quel soffio così concitato e rispettoso dello sguardo altrui, lo sguardo della macchina.
Quel “soffio” che Antonio Grulli aveva colto come atto a innestare nuova vita in “generi classici, come il paesaggio ad esempio”, ora in “una chiave nuova e inquietante”. È così dunque, e giusto per attribuirle atteggiamenti e caratteristiche che le sono improprie, che la macchina si diverte e osserva; genera “a suo modo” e interviene come parte di una creazione che è la creazione del mondo.
Poiché da essa e, più precisamente, da ciò che in essa ha origine (con volontà? Inconsapevolmente?) si apre di nuovo quel tema scottante e talvolta retorico del rapporto tra immagine e immaginazione, tra ciò che si vede e ciò che si percepisce. Dovendo noi – astanti poco meccanici – osservare l’osservato e la modalità con cui esso è portato alla luce. Sguardo che guarda altrove, che Irene Fenara è maestra a cogliere facendoci dimenticare la logica del dominio e della vigilanza, intesa come assidua e finalizzata al tener d’occhio, alla correzione di ciò che non dovrebbe accadere.
Come in un processo pittorico, svolgendo quel che devono, le macchine invece guardano altrove. Di là dai dettami del puro compito, rappresentano senza riprodurre, forse tenendo conto del valore intensivo del termine (re-praesentare). Osservano e colgono, creano immagini a volte in scale di grigio, altre dai toni accesi e cangianti, equilibrati e fluorescenti. Malgrado e attraverso la falla di un pixel evidente, di una defezione dell’immagine che, tuttavia, incontra la caratura della proporzione e della giusta misura.