Print Friendly and PDF

Pascali contemporaneo. La recensione di Marco Tonelli

Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

Pino Pascali trova finalmente una scena in grande stile con le 49 sculture e installazioni esposte alla Fondazione Prada

Una mostra irripetibile senza dubbio quella di Pino Pascali alla Fondazione Prada di Milano (l’istituzione privata che possiede più opere dell’artista nella propria collezione), vista la presenza di ben 49 sue sculture, che richiedono un impegno economico e logistico imponente, sia per valori assicurativi che fragilità delle opere (alcune delle quali infatti esposte in exhibiton copy). Un impegno ripagato da un allestimento che in parte, quella migliore, ha ricostruito gli ambienti installativi (definiti da Pascali “ingombri totali”) con i quali l’artista stesso aveva assemblato alcune delle sue mostre personali più significative, dalla Galleria La Tartaruga di Roma nel 1965 a quella di Gian Enzo Sperone di Torino nel 1966, dall’Attico di Fabio Sargentini di Roma lo stesso anno (e poi ancora nel 1968) fino alla sala conclusiva (sarebbe morto di lì a pochi mesi) della Biennale di Venezia del 1968.

Pezzi anatomici, Ruderi, Armi, Animali di tela bianca, Botole di lavori in corso, Elementi della natura e in lana di ferro, Bachi da setola, stanza dopo stanza si assembrano in modo sorprendente e magico sculture finte e reali nel loro essere costruite a mano, con una tecnica da scenografo esperto, carpentiere e geniale bricoleur, e dal forte valore iconico. Pascali sembra con questa mostra ancora un nostro contemporaneo, o meglio la sua opera è quella di un contemporaneo nonostante i 56 anni passati dalla scomparsa, a 33 anni ancora da compiere.

 

Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

E sebbene invasive, alte, grigie ed estese pedane impediscano spesso alle opere di prendere vita direttamente da terra, come era nelle intenzioni di Pascali (dichiaratamente contro la musealizzazione cimiteriale); sebbene sia vero quello che scrisse Vittorio Rubiu all’indomani della grande mostra a lui dedicata dalla GNAM di Roma nel 1969, che cioè “… le belle favole, le invenzioni e le ambientazioni sceniche, senza la presenza del caro e indimenticabile Pino, sembrano anch’esse senza vita, come abbandonate a se stesse”, molta di questa distanza, per chi non ha vissuto quelle esperienze in prima persona, è ora accorciata.

Apertura internazionale

Molti si sono chiesti perché affidare ad un curatore straniero (il britannico Mark Godfrey), che non si era mai occupato di Pascali, una mostra che comunque possiamo ritenere nevralgica. Da una parte, forse, una visione vergine e depurata rispetto alla passione che avrebbe potuto metterci uno studioso (italiano) di lungo corso di Pascali, può aver avuto la sua utilità, dall’altra l’opportunità di poter esportare la mostra in un museo pubblico finalmente britannico quale la Tate o statunitense quale il MoMA (dopo le personali presso il Pompidou di Parigi, il Rijkmuseum Kröller-Müller di Otterlo, il Musèe d’Arte Moderne de la Ville di Parigi, l’IVAM di Valencia). In attesa di un catalogo della mostra da cui si attendono inevitabilmente novità e nuove letture interpretative, importa comunque che ora Pascali abbia una scena in grande stile!

 

Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

Sezione fotografica da una parte (per lo più tutto già conosciuto e pubblicato) e sezione didattica dall’altra (con un’attenzione ai materiali secondo quelle che all’epoca erano le novità del momento quali l’eternit e certo design di interni), unitamente a una serie di grandi installazioni messe a confronto con gigantografie che riproducono la figura di Pascali (tra cui i 5 Bachi da setola con bozzolo dalla Fondazione Pascali di Polignano a Mare o i 32 metri quadrati di mare, circa esposti in una exhibition copy), spicca senza dubbio la quarta parte della mostra che vede a confronto le opere di Pascali realizzate in pieno clima materico e concettuale negli anni ‘60.

 

Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

Ingombri totali

Acqua (tra cui un’altra exhibition copy come i 9 metri quadrati di pozzanghere) e cubi terra a fianco di opere di Mattiacci, Pistoletto, Fabro, Gilardi, Merz, Kounellis, Ceroli, Piacentino, Bonalumi. Pascali con i suoi amici e colleghi dunque che diedero vita a una delle esperienze più esaltanti per l’arte italiana della seconda metà del XX secolo: l’Arte povera. In questa sezione, finalmente, si possono apprezzare le opere pavimentali di Pascali ricollocate nella loro esatta posizione, cioè direttamente sul pavimento, senza basi, non monumenti museali-cimiteriali ma sculture orizzontali, ingombri totali che dovevano forzare la percorribilità dello spazio, creare una scena teatrale dove gli spettatori si sarebbero sentiti attori e le opere “comparse in attesa di un ciak”.

 

PinoPascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

Una sezione storica e viva per questo motivo, ma che stimola un retropensiero: quando potremo vedere una mostra in cui le sculture di Pascali siano finalmente poste a fianco dei colleghi d’oltreoceano, minimal e land, come Donal Judd, Robert Smithson, Carl Andre, Sol LeWitt, a dimostrazione di una perfetta coincidenza delle sue creazioni seriali e modulari con quanto si andava facendo a livello internazionale? Esemplare sarà in tal caso la presenza del Mare con fulmine conservato ad Osaka, assente presso la Fondazione Prada come del resto l’ancor più iconico Cannone Bella Ciao.

 

PinoPascali, FondazionePrada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

Scultore postmoderno

È forse questa la scommessa su cui puntare nel futuro: non più celebrare Pascali come un artista di punta dell’Arte povera (un dato di fatto da decenni ormai e, in parte, da rivedere), né come un artista italiano del “Sud del Sud dei Santi” o pugliese tout court (vero perché nato a Bari, ma non per formazione artistica), né come il più geniale scultore italiano del Secondo dopoguerra, bensì uno scultore postmoderno tra i primi al mondo, capace di rinnegare il concetto di identità, stile e tecnica in un susseguirsi di spiazzamenti visivi e dissociazioni seriali. Lo aveva del resto intuito Udo Kultermann quando, scrivendo il fondamentale libro Nuove dimensioni della scultura nel 1967, aveva inserito le varie opere di Pascali in ognuno dei capitoli dedicati agli scultori d’avanguardia attivi alla fine degli anni ’60: unico ad essere onnipresente proprio per le sue dislocazioni anticipatamente postmoderne.

 

PinoPascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

L’impressione d’insieme che si ricava da questa mostra però, forse col senno di poi e grazie agli studi monografici apparsi nell’ultimo decennio sulla sua opera, o forse anche grazie ad un’azione di inevitabile assuefazione, è che nonostante le inconciliabili differenze tra una serie di opere e la successiva, realizzate con cadenza di 6 mesi una dall’altra, al fondo ci siano una stessa mente e una stessa mano. Con un identico gusto metafisico e surrealista, sapienza costruttiva e artigianale, abilità di concertazione scenografica, amore per il gioco e per la ricostruzione di un mondo infantile e totemico, relazione costante verso i falsi monumenti, dissidio tra artificio e natura, che potremmo ricondurre a quella suddivisione in archetipi ideata da Antonin Artaud secondo “una specie d’appassionante equazione tra Uomo, Società, Natura, Oggetti”.

 

PinoPascali, Fondazione Prada, Milano
Pino Pascali, Fondazione Prada, Milano

Pascali è insomma sempre lo stesso artista, che possiede semmai la capacità di dialogare con l’ombra del sé, un’ombra vitale che aleggia dietro l’apparente felicità di sculture magiche e primarie, l’ombra intorno alla quale si agita “l’autentico spettacolo della vita”, per dirla ancora con Artaud. Qualcosa che eccede l’opera, ma che l’artista prova a controllare col suo comportamento. Di qui la fisicità delle opere di Pascali, delle apparenti performance fotografiche che altro non sono che tentativi di gestire e giocare con l’ombra delle sculture e degli ingombri totali, in una sorta di corpo a corpo con esse, metafisico e surreale allo stesso tempo.

Commenta con Facebook