A dominare fin dall’ingresso il Padiglione Italia progettato da Massimo Bartolini e curato da Luca Cerizza è l’accuratissimo aspetto acustico
Il padiglione Italia – come tutta la Biennale – ha aperto solo da un’ora, per cui non vi aspettate analisi critiche o speculazioni filosofiche, per ora. Ci siamo entrati fra i primi, e oltre a qualche immagine e un video, vi possiamo riportare soltanto qualche impressione “epidermica” del progetto Due qui To Hear. L’atmosfera – complice forse anche il fatto che era quasi vuoto – è di grande concentrazione, qualcosa vicina alla sensibilità zen. C’è un forte contrasto fra l’assoluto minimalismo della prima enorme sala, percorsa da una lunghissima trave che sorregge un Bodhisattva in meditazione, e la seconda sala, con un fittissimo intreccio di tubature che contrastano la precedente quasi allontanando un possibile horror vacui.
Ma a dominare fin dall’ingresso è l’accuratissimo aspetto acustico. “Il paradigma acustico va inteso qui come esperienza fisica ma anche come metafora, invito all’attenzione, all’ascolto dell’altro, sia esso un essere umano, un elemento macchiffico, una forma naturale”, si legge nella presentazione. “Se, per Massimo Bartolini, l’arte è un percorso di conoscenza, il progetto suggerisce che ‘prestare ascolto’ possa essere uno strumento per il miglioramento di sé stessi all’interno della comunità del mondo”.
Situazione esperienziale
Una situazione esperienziale, che nel rispetto della pratica collaborativa usata con frequenza da Bartolini, coinvolge una pluralità di figure. Le capacità e i linguaggi di musiciste e musicisti (Caterina Barbieri, Gavin Bryars, Kali Malone), scrittrici e scrittori (Nicoletta Costa, Tiziano Scarpa) e tecnici (ingegneri, organari, artigiani), “contribuiscono a definire il progetto artistico e curatoriale nella sua complessità, come l’ascolto di una moltitudine… per una moltitudine in ascolto”.
Sintesi? Sempre sul piano empatico, ci fermiamo nell’osservare che il progetto (la cui sola visita risulta “monca” se estrapolata dal contesto di lectures e performances) appare rigoroso e ben curato. Certamente più adeguato ad affacciarsi a una scena globale, che non a rappresentare – come dovrebbe fare un padiglione nazionale – un’identità italiana storicamente lontana da modalità che restano più affini a sensibilità anglosassoni, oltre che orientali. Ma queste riflessioni oggi non possono che essere – ci perdonerete – parziali e ben poco metabolizzate…