Nicolas Bedos, classe 1979, figlio d’arte, pluripremiato acclamato attore, regista, sceneggiatore e autore della nuova scena francese, è un autore praticamente sconosciuto in Italia. Alcune delle sue opere sono diventate film, come La belle époque, con un cast stellare, in cui spiccano Fanny Ardant e Daniel Auteil, e tutte indagano i risvolti del sentimento e dell’amore. Quelli di Bedos sono amori che si consumano, si sfaldano nel tempo, oppure che resistono alle crisi, ai tradimenti, ai piccoli e grandi mutamenti della vita.
Davide Livermore ha voluto portare in scena Le Voyage de Victor, un testo teatrale di Bedos del 2009 non solo mai rappresentato nel nostro Paese, ma neppure mai pubblicato: è stato infatti tradotto per l’occasione da Monica Capuani, un segugio che si auto-sguinzaglia sulle tracce del nuovo teatro europeo.
Il viaggio di Victor ha debuttato Venerdì 3 maggio alle 20,30 al Teatro Modena di Genova in prima italiana, una produzione del Teatro Nazionale di Genova (con il Teatro di Napoli) con la regia appunto di Livermore. In scena solo due personaggi: un uomo che in un incidente ha perso la memoria ed è alla ricerca di se stesso e una donna che gli sta costantemente accanto la cui identità si scoprirà quasi subito.
Alle spalle ci sta una verità dolorosa per entrambi, genitori di un figlio drogato che sceglierà di togliersi la vita. Un testo piuttosto banale che non racconta nulla di nuovo, è riuscito meglio nell’intento il grande Georges Simenon nel suo romanzo L’ottavo giorno del 1963. Anche lì il protagonista a seguito di un ictus perde la memoria che pian piano ritrova come l’uso della parola e degli arti, analizzando il percorso della sua vita, ma c’è ben altro spessore! Il testo di Bedos vuol essere cripico in quanto fino all’ultimo non si capisce se Victor non ricorda davvero o finge. Un gioco che dura troppo che non estenua solo Marion l’infermiera che si prende cura di lui nonchè la ex moglie, ma anche il pubblico.
Livermore racconta questa storia definendola un “Requiem” e per farlo fa una scelta visiva originale: un grande specchio inclinato, posto sul fondo della scena spoglia, offre al pubblico due visuali contemporanee degli attori e della scena stessa. Vediamo Victor e la donna davanti in carne ed ossa e riflessi di spalle in un’analisi introspettiva. Racchiusa tra un sofisticato ledwall a pavimento e un grande specchio sul soffitto, la scena – curata dallo stesso regista insieme a Lorenzo Russo Rainaldi e illuminata da Aldo Mantovani – gioca con significative geometrie e sdoppiamenti, per poi trasfigurarsi grazie al video di D-Wok. Come sempre Livermore introduce video ed “effetti speciali” nellle sue piece teatrali ritenendo senza dubbio che ciò comporti un valore aggiunto all’opera. Del resto l’utilizzazione del video è presto diventata una pratica abbastanza usata della messa in scena, una tendenza oramai diffusa che, diciamo francamente, è alla ricerca del puro effetto spettacolare.
E così tra parole confuse, a volte appassionate, spesso disperate o cattive (soprattutto quelle di lui), tra segreti e ricordi, la vita dei due si ricompone come un puzzle, fino al dramma di quel figlio “troppo bello e viziato” divenuto icona nel video finale che lo vuole sdraiato nel centro del lettone fra i due genitori che ne accarezzano il volto che oramai è solo un’effige di qualcosa che non torna.
Linda Gennari e Antonio Zavatteri sono bravi, nulla da dire, ma il tutto non convince a pieno, nemmeno gli abiti di scena firmati Giorgio Armani, niente che riporti ad abiti da uomo o donna classici e di alta qualità, niente che faccia venire in mente quello che è uno dei primi marchi dell’alta a moda italiana.
Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Modena fino al 19 maggio.