Calder. Sculpting Time è il titolo della grande monografica che il MASI Lugano, nella sede del LAC, dedica allo scultore che per primo ha introdotto il movimento in una forma d’arte statica come la scultura. Una rivoluzione raccontata attraverso 30 capolavori realizzati tra il 1931 e il 1960. Fino al 6 ottobre 2024.
Le sculture di Alexander Calder hanno indubbiamente un carattere giocoso. Ma nonostante i colori accesi, le meccaniche da giostrina acchiappasogni e le forme delicate, il primo gioco che l’artista intrattiene è quello con l’arte stessa. Del suo lavoro, nel catalogo della mostra dell’artista del 1931 alla Galerie Percier di Parigi, il collega Fernand Léger scrisse: “è qualcosa di serio nonostante non dia l’impressione di esserlo”. Il gioco dell’arte, per chi vi partecipa per davvero, è una questione di massima importanza.
La partita, sostanzialmente, è questa: tra critici e intellettuali, soprattutto, l’affaire dell’arte diviene un gioco di incastri, di sottigliezze, raffinatezze, presupposti e svolte teoriche, trovate tecniche e contrattacchi ideologici. Il principio dell’innovazione è il padrone della riflessione artistica. Un autore scova una svolta concettuale, una trovata estetica, un’invenzione compositiva o procedurale e tutto cambia. Chi partecipa al gioco dell’arte deve trovare il modo di rispondere: se vuoi dirti veramente artista, devi trovare qualcosa di nuovo.
Alexander Calder, quando nel 1926 arriva a Parigi, si trova catapultato nell’epoca d’oro di questa battaglia artistica, dove le avanguardie si sfidavano e superavano continuamente nella ricerca di una soluzione stilistica o concettuale inedita. Da scultore, Calder è in una posizione che gli garantisce vantaggi e svantaggi, tutti racchiudibili in una questione nodale: scolpire è meno economico di dipingere, serve più spazio, più risorse, più attenzione agli aspetti logistici; proprio per questo, però, i concorrenti sono meno. E chissà che non siano state proprio queste criticità, del tutto pratiche, a spingere Calder verso la sua rivoluzione poetica. Anche questo, del resto, fa parte del gioco dell’arte.
Così l’artista inizia la sua rivoluzione scultorea alla fine degli anni ’20, realizzando opere con soli fili metallici, in principio dei ritratti, totalmente privi di massa. Sono lavori che necessitano di meno materiali per la fattura, meno spazio per la conservazione, meno risorse per muoverli. In tale contesto di alleggerimento e sottrazione, quasi inevitabilmente, il successivo elemento a farne le spese è stata la figura. Nel 1930, il lavoro di Calder muove quindi verso l’astratto e crea le le prime sculture non oggettive di, che egli descrisse come densités, sphériques, arcs e mouvements arrêtés.
La mostra al LAC di Lugano si concentra in particolar modo su questo passaggio, raccogliendo 30 opere che si estendono fino al 1960, cogliendo l’apice del successo artistico dello scultore, il momento in cui nel gioco del progresso artistico era l’indiscusso vincitore. A testimoniarlo sono opere come Croisière, in cui fili sottili delineano un volume curvilineo a cui sono connesse due piccole sfere dipinte in bianco e nero. Le linee di fili metallici di Calder scolpiscono volumi dai vuoti e presentano il movimento di un’azione priva di peso e di massa.
La scultura, per eccellenza un medium pesante e statico, si svuota in pochi anni di massa e immobilità, accedendo per la prima volta a una nuova dimensione. Anche qui, se vogliamo, il progresso non è casuale: è solo la scultura, le cui proprietà tridimensionali sono più marcate, a compiere un passo ulteriore, a guadagnarsi la capacità di muoversi. Una sorta di dimensione temporale, proprio nei decenni in cui il mondo prendeva confidenza con le teorie di Einstein sul tempo come quarta dimensione. Duchamp le chiama mobiles, per sottolinearne le proprietà cinetiche e la loro irriducibilità a una forma precisa. Uno dei più importanti di sempre, Eucalytos, è in mostra.
Le opere di Calder sono mutevoli, vivono d’aria, come i disegni esistono solo in stretta dipendenza con gli spazi vuoti che circondano. “Muovendosi liberamente e interagendo con l’ambiente circostante, sembra dare forma all’aria; cambia continuamente, giocando con il tempo”, sottolineano le curatrici, che aggiungono: “Calder ha creato organismi metallici che possiedono le qualità della leggerezza e della varietà in forme biomorfiche sottili, che sono allo stesso tempo resistenti e fragili, dinamici ed estetici, solidi e ipersensibili”.
Se Arc of Petals (1941) e Red Lily Pods (1956) sono altri celebri esempi di mobiles in mostra, l’esposizione raccoglie poi anche un nucleo di stabiles, termine coniato da Jean Arp che dettaglia un’ulteriore mossa nel gioco dell’arte, ovvero quella di contrapporre ai mobiles una serie di opere che esplorano invece il movimento in senso implicito. É quello dell’osservatore, chiamato ad aggirare ed esplorare l’opera per esaurirne il significato. Dopo la sostanza della scultura, dopo la staticità della scultura, Calder è intervenuto dunque anche sul nostro rapporto fisico con essa.
Ma la partita, come detto, vive anche di imprevisti, di impedimenti da cui solo il grande artista riesce ad uscirne vincente. Nel 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, in Europa c’è scarsità di lastre di metallo. Calder è così spinto a cambiare ancora, a reinventare le sue pratiche. Scova così la possibilità di ancorare i fili metallici al legno e così, ancora più leggere, di appenderle alla parete a varie altezze. Fino a farle pendere dal soffitto, sullo spettatore, come una costellazione (Sweeney e Duchamp, che curarono la retrospettiva di Calder del 1943 al Museum of Modern Art di New York, proposero il termine constellation per queste sculture) di forme che alla stregua del firmamento ruotano attorno alla testa di chi le guarda. Un’immagine, questa, che racchiude il senso ultimo di questa mostra: confrontarsi con questa dimensione temporale, partecipata. Difatti l’eredità di Calder, come visto, “non perdura non solo nella presenza fisica delle sue opere, ma anche nel profondo impatto del suo lavoro, che ha cambiato il modo in cui percepiamo e interagiamo con la scultura“.