Nato a Palermo nel 1996, Giuseppe Di Liberto vive e lavora a Venezia. La sua ricerca gravita attorno ai temi della fine e della mancanza, con una particolare attenzione agli sviluppi socio-antropologici nell’area mediterranea.
Le sue opere si avvalgono del medium della scultura, ma prendono vita attraverso una pratica sperimentale e multidisciplinare. Sculture, tele e installazioni affrontano il paradosso dell’assenza e il mistero dell’immagine intesa come simulacro. I suoi lavori sono stati esposti in diverse istituzioni pubbliche e private, tra cui: Fondazione Merz (2024), La Quadriennale di Roma (2022/23), Mercerie (Bruxelles 2023), Fondazione Imago Mundi (2021), The Address Gallery (2022), Fondazione Bevilacqua La Masa (2021), Galleria Poggiali (2021).
Lo abbiamo intervistato in anteprima in occasione della sua mostra alla Galleria Poggiali di Milano.
“Così tentammo di aspettare la fine” è il titolo della tua prossima mostra, che inaugura il 6 giugno 2024 alla Galleria Poggiali Milano. Si tratta di un titolo piuttosto evocativo…
Come nasce l’idea di progetto?
La mostra presenta il risultato della ricerca intrapresa durante la residenza artistica promossa dal Ministero della Cultura italiana in Francia, il Nuovo Grand Tour. Ho passato del tempo a Sète nel sud della Francia, collaborando con il CRAC (Centre régional d’art contemporain Occitanie/Pyrénées-Méditerranée) diretto da Marie Cozette e con L’Ecole des Beaux-Arts diretta da Philippe Saulle.
Sète è una città di mare che ha visto una forte migrazione di pescatori provenienti dal Sud Italia ed è quindi caratterizzata da una mescolanza di tradizioni e usanze che non conoscevo e sono state particolarmente d’ispirazione. La ricerca si è focalizzata su due macro-tematiche: la prima vede la necessità, da parte dei pescatori, di produrre delle piccole tele identificabili come ex-voto, caratterizzate, a mio, avviso da cifre stilistiche peculiari – le modalità estetiche di rappresentazione delle scene “tempestose” – caratterizzate da una pacata tensione emotiva. Il volto dei protagonisti, immersi in delle vere e proprie bufere apocalittiche, risultano sereni e per nulla impauriti, forse rassicurati da entità divine. Il mio interesse si è soffermato sugli elementi iconici che dopo la morte inevitabilmente rimangono, e assumono il compito di tracciare una narrazione della presenza dell’assenza.
La seconda vede l’interesse, romantico e quasi inevitabile, verso il tema dell’apocalisse, in particolare quella di Giovanni riletta da Gianni Garrera, e come quest’ultima si presenti come un vero e proprio catalizzatore in grado di racchiudere dentro di sé tutta la mia produzione più recente. Una fine che diventa sempre più concreta, e sempre meno evitabile, riecheggia all’interno dei lavori realizzati tra Sète e Venezia. Il titolo si presenta simultaneamente come inizio e fine di questa esperienza, un abbraccio collettivo nell’attesa di qualcosa.
Tra queste hai scoperto piccole tele con funzione di ex-voto. Puoi parlarci di come queste opere hanno influenzato il tuo lavoro? Quali caratteristiche stilistiche che ti hanno colpito di più?
Ho trovato interessante la necessità dei pescatori di produrre delle piccole tele con una funzione apotropaica, caratterizzate da cifre stilistiche peculiari, come la paradossale pacata tensione emotiva dei personaggi coinvolti nelle tempeste in mare aperto. Sono immersi in vere e proprie bufere apocalittiche, eppure sembrano sereni, per nulla impauriti, forse rassicurati dalla protezione divina. Anche gli oggetti del corredo funebre che adornano e coronano le tombe dei pescatori seppelliti al Cimetière marin (nome attribuito dalla raccolta di poesie di Paul Valery, anch’esso seppellito nel cimitero) diventa così motivo di ispirazione e studio approfondito.
Da sempre la morte affascina gli artisti, è qualcosa che da un lato spaventa dall’altro attrae. Tutti facciamo esperienza del lutto nel corso della vita e forse proprio per questo è un momento particolarmente investito da tradizioni e simboli. Ma il tuo lavoro non tratta solo la morte, piuttosto direi che approfondisce la fine in un senso ben più esteso. Lo racconta bene il tema dell’apocalisse, che hai scelto di affrontare in questa mostra: la fine della vita, ma anche la fine della morte, in qualche modo la fine di tutte le fini.
La carne muore ma il ricordo rimane. André Bazin, uno tra i principali maestri della critica cinematografica, nel saggio Qu’est-ce que le cinéma (1945) teorizza il Complesso della mummia, qualcosa che per me sta all’origine della pittura e della scultura. L’essere umano tende a difendersi dallo scorrere del tempo attraverso un Medium, un feticcio del corpo morto, che sostituisce la presenza che è venuta a mancare. Spesso si tratta di immagini, che sostituendo la carne diventano rimedio alla caducità e assumono un ruolo sociale. Le immagini resistono alla morte, fanno sopravvivere il ricordo nei tempi.
Quello che mi affascina del tema apocalittico, è che spesso viene inteso come catastrofe, rovina o distruzione, quando in molte culture rappresenta un momento di epifania e conseguente rigenerazione. In questo scenario le immagini assumono il ruolo di agenti rivelatori, svelano una verità prima nascosta e che ora è diventata un monito presente.
La completa assenza, il silenzio, la quiete dopo la tempesta generano spesso più sgomento del caos. Ne abbiamo fatto tutti esperienza nel 2020, con la pandemia di Covid, quando le televisioni trasmettevano immagini distopiche di strade deserte, locali chiusi, parchi abbandonati dove la natura riprendeva i propri spazi. È stato come assistere all’estinzione della razza umana dal divano di casa propria, e non è un caso che la preoccupazione per la catastrofe climatica abbia iniziato a crescere proprio negli anni successivi.
Mi viene in mente il Doomsday Clock (l’Orologio dell’Apocalisse), un’iniziativa ideata nel 1947 dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago. Si tratta di un orologio metaforico che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta. Questo orologio viene usato per quantificare il rischio di un’ipotetica fine del mondo, quando l’umanità non riuscirà più a porre rimedio alle minacce create proprio dagli stessi esseri umani. Nel corso degli ultimi 76 anni le sue lancette si sono dirette sempre di più verso la mezzanotte, ovvero verso l’ora del giudizio, raggiungendo lo scorso anno il minimo storico di 90 secondi. I cambiamenti climatici hanno reso il 2023 l’anno più caldo mai registrato, con inondazioni, incendi e catastrofi ambientali legate al caldo che hanno avuto effetti dannosi su tutta l’umanità. Durante il Covid-19, dalle nostre case abbiamo toccato con mano cosa poteva significare vivere un’apocalisse quotidiana, senza la certezza di una fine, pur percependola. La relazione tra presente e passato oggi è evanescente, per questo nei lavori in mostra la linea temporale collassa e gli avvenimenti storici si impastano in un anacronismo funzionale. L’idea è quella di ri-presentare qualcosa di notoriamente già vissuto che, ad oggi, risulta stranamente contemporaneo, familiare.
In tutto il mondo si sta diffondendo un aumento di stress legato alla consapevolezza della crisi climatica: ansia, senso di colpa, indignazione per lo stato del Pianeta che abitiamo. Studi dicono che l’eco-ansia colpisce soprattutto i millennials e la generazione Z.A tuo avviso, quanto c’è di generazionale in questa sensibilità?
Se penso alla mia adolescenza ricordo di avvenimenti “catastrofici” o “apocalittici”. Il disastro delle Torri Gemelle nel 2001, le catastrofi naturali segnate da terremoti, maremoti e incendi, fino al Covid-19 e alle due grandi guerre in atto (N.d.R. Ucraina e Palestina) che hanno scosso le certezze di un occidente capitalistico sicuro di sé. Nuovi organi di protesta (Last generation) stanno tentando di attuare una pratica di resistenza a una classe politica cieca, che davanti al problema della fine globale nega l’evidenza e si rifiuta di affrontare l’inevitabile.
E poi c’è Venezia, la città dove hai deciso di vivere, dove la sfida da sempre è contingentare le caratteristiche naturali e antropiche, a partire dai disagi provocati dall’acqua alta in periodo pre-Mose fino all’abbassamento del livello del suolo. Gli ultimi dati stimano che il fondale potrebbe scendere di una decina di centimetri in 30 anni. Un’Atlantide contemporanea, un museo che sta letteralmente sprofondando…
Ogni volta in cui rimango solo con questa città mi rendo conto della sua vulnerabilità. Venezia rappresenta uno dei più importanti centri artistici della storia, continua a trasformarsi pur rimanendo apparentemente congelata nel tempo. Chissà cosa rimarrà tra qualche anno. Per adesso mi piace vivere qui, dove tutto si poggia su dei pali di legno che stanno per marcire.
Puoi darci qualche anticipazione sulle opere in mostra?
I lavori in mostra si muovono su un unico piano sfalsato e distorto. Sono un apparato, dove ogni organo alimenta, e completa, la funzione dell’altro. Lo spazio sarà attraversato da presenze dipinte su cotone, sculture che materializzano ombre mosse da un vento in tempesta, torce metaforicamente spente che emanano particolari fragranze. Presenze neon sospese a mezz’aria svelano gli oggetti nello spazio accompagnate da un tappeto sonoro, che svolge il fondamentale ruolo di catalizzatore generale di una narrazione in divenire.