“Qualcosa che toglie il peso”: per rendere conto della mostra di Mario Merz alla Fondazione Merz di Torino, ecco una lettura particolare, che si articola intorno al confronto con il pensiero poetico di Rainer Maria Rilke.
“La natura, le cose del nostro ambiente e uso, sono provvisorie, caduche; ma esse sono, finché noi siamo qui, nostro possesso e nostra amicizia, partecipi della nostra miseria e allegrezza, come sono già state le confidenti dei nostri antenati. Così si deve non solo non calunniare e avvilire tutto quanto qui esiste, ma appunto per la sua provvisorietà, che esso divide con noi, devono queste apparizioni e cose essere afferrate da noi in un’ultimissima comprensione e trasformate. Trasformate? Sì, perché il nostro compito è di imprimerci questa precaria caduca terra così profondamente, così dolorosamente e appassionatamente che la sua essenza in noi risorga invisibile. Noi siamo le api dell’Invisibile. Nous butinons éperdument le miel du visible, pour l’accumuler dans la grande ruche d’or de l’Invisible.”
Così scriveva il poeta in una bellissima lettera a Witold von Hulewicz, il 13 novembre 1925. Le parole di Rilke sembrano pensate per raccontare e meglio comprendere l’opera di Mario Merz. In particolare, appaiono adattissime a descrivere molti dei suoi lavori in mostra fino al prossimo ottobre alla Fondazione Merz di Torino.
Capitano a volte degli episodi sincronici. E quando si va a vedere una mostra che ha al suo centro il tema della trasformazione, ma anche del “togliere peso”, nel senso del rendere impalpabili, eteree e ricche di anima, il mondo e le cose, di un grandissimo artista come Mario Merz, questi appaiono ancora più significativi.
Proprio nel giorno in cui ho visitato questa mostra o è stata presentata alla stampa avevo tra le mani le lettere a Muzot di Rilke, in un volumetto che porta nel titolo le parole: “noi siamo le api dell’invisibile” (De Piante Editore, 2022, a cura di Franco Rella).
Che cosa significa che “noi siamo le api dell’invisibile”? Intanto noi siamo gli esseri umani, noi tutti, nella nostra vocazione più profonda che per Rilke ha a che fare con la coscienza poetica. Ma la frase, nel suo complesso, significa che possiamo assumere un nuovo sguardo su ogni cosa, relazionarci al mondo cercando di estrarre da esso quanto c’è di più prezioso. Renderemo, così, ogni cosa, nella natura e nell’esperienza, al contempo eterea ed eterna. Essere “le api dell’invisibile” significa allora togliere peso “fisico” alle cose, per donare loro, invece, una dimensione eterna, sottile, piena di senso e durevole nel tempo e oltre il tempo.
Qualcosa che toglie peso è proprio il titolo della mostra personale dedicata all’opera Mario Merz in corso fino al prossimo 6 ottobre presso la Fondazione Merz di Torino.
Si tratta di una mostra viva, non banale e adatta tanto a chi non conosce l’opera di Merz quanto ai palati più raffinati, perché non si ferma ad una lettura storico-artistica dell’opera dell’artista, ma va alla ricerca di stimoli e percezioni inattesi, proponendo tra l’altro alcuni lavori mai esposti prima in Europa.
L’opera di Merz viene così presentata e disposta attraverso una lettura trasversale, che accende una luce sul lavoro interiore, sulla genesi intima dell’atto creativo dell’artista, senza mai cadere nel didascalico o nell’ovvio e allo stesso tempo senza tradirne la natura più profonda.
Secondo quanto si legge nel testo di presentazione proposto alla stampa, il filo conduttore della mostra è il concetto di struttura che soggiace alla ricerca dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss. Il concetto lévistraussiano di struttura viene però qui reinterpretato, anzi riadattato, in una maniera totalmente innovativa attraverso le opere dell’artista torinese. Se Lévi-Strauss cercava di indagare il comportamento umano alla ricerca delle strutture fondamentali che da sempre segretamente lo guidano e governano, confrontandosi anche con le culture primitive e altre rispetto alla nostra, il senso delle opere esposte in questa mostra va piuttosto nella direzione di sfrondare del superfluo la nostra percezione della realtà, appunto per toglierle l’inutile peso e andare a cogliere l’essenziale che profondamente la regola e la anima. Con la sua opera, Mario Merz lascia emergere e rende visibile, così, quell’alchimia che fa oro della nostra esperienza quotidiana della natura e delle cose, anche quella più semplice.
La mostra prende le mosse da una serie di opere e disegni e soprattutto da un igloo del 1997, unico esempio della celebre tipologia di opere di Mario Merz presente in questa mostra. Ma, anche qui, si tratta di un igloo particolare perché ricoperto di foglie d’oro. Questo aspetto, che è ben più di un dettaglio, conferma e sottolinea ancora di più l’allusione a una dimensione alchemica e trasformativa molto profonda, che coinvolge la realtà e l’anima tanto dell’artista, delle cose e di chi fruisce dell’opera.
Fulcro della mostra è però l’opera di grandi dimensioni Quattro tavoli in foglie di Magnolia, realizzata dall’artista nel 1985 in occasione di una mostra personale per Sperone Westwater e Leo Castelli a New York. Si tratta di un’opera mirabile, finora mai esposta in Europa, composta di quattro tavoli posti in maniera consecutiva l’uno con l’altro e ricoperti di cera. Qui e là, sulla superficie dei tavoli, hanno luogo trasformazioni e interferenze con altri oggetti e presenze.
La mostra si snoda ancora attraverso altre opere, bozzetti e disegni, fino a giungere ad un altro lavoro particolarmente intenso, L’horizont de lumière traverse notre vertical du jour, del 1995, dove due contenitori colmi l’uno di vino e l’altro di miele, sono posti l’uno accanto all’altro. Si tratta di contenitori dalla forma geometrica, simili a coni capovolti che starebbero benissimo nel laboratorio di un chimico, che rimandano ancora una volta alla dimensione trasformativa e generativa delle cose. In questo luogo si tratta in particolare di sostanze naturali ricche di vita e nutrimento, che nascono dalla fermentazione ed elaborazione naturale di altre sostanze presenti in natura. Ciò che trasforma l’uva in vino e il fiore in miele, è metafora del nostro guardare, percepire ed esperire il mondo e le cose, trasformandole in altro: è ciò che avviene nella poesia, e ancor più nella coscienza, e che dà luogo a quell’orizzonte di luce, che verticalmente illumina le nostre vite.
Cera, miele… il rimando alle api dell’invisibile si fa più palpabile, anche se resta sottile come un profumo.
La lettera di Rainer Maria Rilke ravvisava nell’essenza dell’essere umano la sua capacità di trasformare il reale andando alla ricerca di ciò che è più essenziale, privo di peso corporeo ma strabordante di anima. Noi siamo le api dell’invisibile, vuol dire che il nostro scopo più profondo ed essenziale, anche se non sempre – anzi quasi mai – ne siamo consapevoli, è cogliere il reale e transitorio per trasformarlo in qualcosa di eterno e poetico. Così come il vino nasce dall’uva e il miele e la cera, per mezzo delle api, dai fiori.
Mario Merz avrebbe fatto propria la frase di Rilke? È impossibile purtroppo dirlo con certezza. Ma forse avrebbe apprezzato il collegamento e, certo, il rimando aiuta noi “lettori” della sua opera a meglio comprenderla, almeno in parte.
Ma l’esperienza della mostra non finisce qui e si completa ancora con una video intervista condotta da Harald Szeeman, realizzata nel 1985 in occasione di una mostra personale di Merz presso la Kunsthaus di Zurigo. E per finire, il 18 e 19 settembre prossimo la Fondazione Merz proporrà una serie di incontri e convegni dedicati alla figura del grande artista, insieme con la presentazione di un catalogo ragionato sul tema degli igloo, con testi di Beatrice Merz e Maddalena Disch.
La mostra dà così il la ad una serie di manifestazioni volte a celebrare il centenario della nascita di Mario Merz il prossimo 1° gennaio 2025.