Una riflessione complessiva sui significati dell’edizione 2024 della Biennale di Venezia arti visive e sui tanti eventi collaterali in città
L’Esposizione Internazionale d’Arte 2024, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa e giunta quest’anno alla sessantesima edizione, emerge come indiscussa protagonista assoluta della scena artistica veneziana, cui ogni altro evento fa da degno corollario. Pedrosa, il primo curatore proveniente dall’America Latina nella storia della manifestazione, ha incluso nella sua Biennale 333 artisti, la maggior arte dei quali non aveva mai partecipato alla kermesse, provenienti da 87 paesi con un’attenzione particolare per il Sud globale, dall’America Latina all’Africa, dal Medio Oriente all’Asia.
Il titolo della rassegna, “Stranieri ovunque / Foreigners everywhere”, è mutuato dalle sculture al neon del duo italiano Claire Fontaine (Parigi-Palermo), realizzate in una sessantina di esemplari multicolori e multilingue a partire dal 2005, che evocano una molteplicità di significati: il concetto-cardine – ovunque ci si trovi si è circondati da stranieri e ovunque si vada si è stranieri – ben si adatta a Venezia, città votata all’accoglienza, e alla missione stessa di questa edizione. Gli artisti selezionati, in particolare quelli alla prima esperienza internazionale, compongono il mosaico di una complessa esperienza di espatriati, di immigrati, di rifugiati, di outsider, di estranei a causa di un’identità fluida o queer, di indigeni spesso trattati come stranieri nella propria terra.
Questa rassegna dedicata all’alterità è stata definita dal neo presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco “uno strumento di pace, un agone in cui gli artisti e l’aristocrazia del pensiero fanno argine alla catastrofe delle guerre e misurano la vicinanza tra le culture, i popoli, le religioni dibattendone e accettandone le differenze in una serena convivenza”.
L’edizione 2024 ci offre, come da prassi consolidata da oltre un secolo, un duplice nucleo di opere contemporanee e di opere storiche che si articolano tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale. Ad accoglierci ai Giardini la sfolgorante pittura murale multicolore realizzata dal collettivo indigeno dell’Amazzonia MAHKU sulla facciata del Padiglione centrale, che conferisce a quest’ultimo un aspetto monumentale, di forte impatto visivo. All’interno, accanto a un nucleo di ritrattisti e di astrattisti, si distinguono installazioni e filmati di recente produzione, come pure un cospicuo numero di opere in stoffa stampata, ricamata o sotto forma di arazzo, provenienti dal sud del mondo.
Una sala si concentra sulla sensibilità omosessuale accostando le opere rasserenanti di Filippo De Pisis ai quadri inquietanti dell’americano Louis Fratino, mentre il murale del gruppo indiano Aravani Art Project offre una lettura positiva dell’esperienza transgender femminile contro la marginalizzazione. Nel giardino di Carlo Scarpa spicca una scultura di bronzo dei Dallas Puppies Puppies che svela un corpo in transizione tra lo stato maschile e femminile e pare affermare, nella sua unicità, una condizione sempre più frequente di ricerca identitaria nel mondo contemporaneo.
Mentre l’Ucraina espone le immagini dei bombardamenti russi riprese dagli abitanti, la Russia si defila e presta il Padiglione alla Bolivia. Coraggiosa la decisione dell’artista Ruth Patir di tener chiuso il Padiglione di Israele “fino al raggiungimento di accordi costruttivi e alla liberazione degli ostaggi”, e non aprire la sua mostra “sul dolore, in un momento come questo”. Tra i Padiglioni nazionali si distinguono quello dell’Australia (l’artista aborigeno Archie Moore è stato premiato con il Leone d’oro grazie alla grandiosa installazione di un albero genealogico che risale a 65.000 anni fa), degli USA (Jeffrey Gibson evoca gli spiriti ancestrali Cherokee in una caleidoscopica mostra multi-dimensionale in ceramica smaltata che invita all’inclusività) e del Canada.
Quest’ultimo, segnalato dal New York Times e da Vogue fra i top 10, offre Trinket, un’installazione site-specific particolarmente immersiva e coinvolgente dell’artista cosmopolita Kapwani Kiwanga, cresciuta in Canada ma residente a Parigi e attualmente ospite dell’Accademia di Francia a Roma. L’intero edificio progettato dallo storico studio milanese BBPR diventa un tableau ricoperto sia all’esterno che all’interno di perline di vetro multicolori, riportando così alla memoria, in un intrigante contesto socio-economico, i primi scambi tra nativi e colonizzatori: le perle di vetro, prodotte in grande quantità a Venezia, venivano scambiate infatti fin dal XVI secolo in Africa, Asia e nelle Americhe con oro, avorio, pellicce e schiavi e quindi equiparate al denaro, assumendo al contempo però una forte valenza rituale, estetica e simbolica. Sculture in legno, metallo e persino in foglia d’oro completano la produzione artistica della Kiwanga e suggeriscono, grazie al contributo della curatrice Gaetane Vernae e di storici e antropologi coinvolti nel progetto, come le società stesse possano mutare grazie alla complessità del commercio globale e dello scambio culturale.
La presenza del Canada a Venezia si è fatta notare anche fra le manifestazioni collaterali, allo spazio Berlendis, per l’installazione intitolata Grand Hotel della collezionista-curatrice Ydessa Hendeles, la quale a partire dal 2011 non si limita a collezionare e a curare opere di altri artisti ma crea mostre originali, uniche, assemblando oggetti trovati e reperti storici del periodo che intende approfondire e presentare al pubblico. Nel caso specifico, coglie l’occasione del tema sotteso all’intera Biennale 2024 per narrare la storia di sé stessa, figlia unica proveniente da una famiglia di ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto, e narrare al contempo le vicissitudini dei genitori in Germania prima dell’emigrazione in Canada verso un futuro di benessere cui tanto aspiravano. Per anni Ydessa ha gestito un museo privato di arte contemporanea a Toronto, poi chiuso nel 2012 per trasferirsi al Dakota Building di New York, dove attualmente risiede pur conservando uno studio nella capitale dell’Ontario.
La mostra include precisi riferimenti storici, non disgiunti da un tocco di ironia: dipinti di reali russi che avevano emesso leggi e decreti antisemitici, preziose collane di perle ed eleganti beauty case che le donne del tempo potevano aver posseduto, come pure una Volkswagen Beetle, targata Ontario, con valigie Louis Vuitton legate sopra, a illustrare la ripresa finanziaria della famiglia dopo il superamento del trauma subito per la detenzione in un campo di concentramento.
L’Arsenale offre una varietà di esemplificazioni sul tema dell’identità e della migrazione. Particolarmente significativa e coinvolgente la presentazione della collezione del MASP – Museu de Arte de São Paulo, a cura dello stesso Pedrosa che lo dirige da anni: un vero e proprio monumento del modernismo brasiliano, progettato dall’architetta Lina Bo Bardi (Roma 1914-San Paolo 1992), che ha lasciato un segno profondo nel territorio brasiliano grazie anche alla sua provenienza italiana. Il suo storico allestimento del 1968 su inediti cavalletti di vetro, legno e cemento, viene qui riproposto riscuotendo ampio apprezzamento. Vi sono esposte opere di grande valore artistico che meritano un’attenta visita, tra cui foto inedite di Tina Modotti, all’apice della sua carriera artistica.
Da qui il curatore ha introdotto una sequenza di “Historias” che suggeriscono una visione polifonica del passato e una concezione della storia stessa come molteplicità di punti di vista. La Biennale si trasforma così in museo temporaneo che, a differenza del museo vero e proprio – istituzione lenta e spesso impermeabile al cambiamento – permette di creare progetti altrimenti irrealizzabili, grazie alla maggiore energia tipica di un evento di portata internazionale e a un budget più sostanzioso. Con il recupero di centralità del Sud del mondo, aree di cultura musulmana comprese, il panorama artistico contemporaneo viene in qualche modo decolonizzato, includendo artisti dimenticati o ostracizzati, provenienti da paesi cui normalmente la Biennale riserva uno spazio marginale.
Il Padiglione Italia, che si presenta come un enorme doppio ventre di balena, è occupato quest’anno, nonostante la sua vastità, da un solo artista, Massimo Bartolini, già ospitato alla Biennale nell’edizione del 1999. L’artista toscano presenta un progetto corale che unisce scrittori e musicisti, ricreando negli anni un inedito paesaggio di giardino all’italiana, una selva di 78 tubi innocenti che emettono suoni per invitare al silenzio e alla contemplazione. Al centro, una vasca circolare dove è possibile sedersi e riflettere. Il curatore Luca Cerizza ha scelto un progetto sonoro fin dal titolo: “Due qui (two here) / to hear (ascoltare)”, incentrato sul tema dell’ascolto quale opportunità di crescita personale e collettiva. I tubi sono allestiti come un ponteggio ispirato alla modularità e alla provvisorietà che, secondo l’artista, “esalta il sacro che è in ognuno di noi”. I tubi si tramutano in canne d’organo, grazie alla musica elettronica composta da Caterina Barbieri e Kali Malone, sulle orme di Alexander Scriabin.
È una installazione di un minimalismo sconcertante e avvolgente che si preannuncia fin dall’ingresso con una struttura a canna d’organo, che emette un singolo suono in la bemolle, e con la statuetta di un Bodhisattva (Colui che ha raggiunto l’Illuminazione) per preparare lo spettatore a lasciare ogni sovrastruttura. Il labirinto-foresta del salone centrale si tramuta, grazie all’ascolto, in una sorta di cattedrale dello spirito per diffondersi poi nell’adiacente Giardino delle Vergini. Anche in questo spazio esterno, brani musicali minimalisti contemporanei vengono intercalati a testi di Tiziano Scarpa e di altri scrittori e poeti che invitano a concludere il viaggio interiore di ognuno di noi prendendoci cura della terra che ci ospita. È un’installazione suggestiva ma esoterica, per addetti ai lavori, che è stata platealmente stroncata dal sindaco Brugnaro durante il vernissage ma che contiene in sé una proposta tutto sommato condivisibile in un’epoca di eloquio vuoto e spot pubblicitari. Resta da considerare se uno spazio così vasto non avrebbe potuto dare l’occasione a più artisti di far emergere la propria creatività, in una vetrina internazionale che dovrebbe per mandato distinguersi per innovazione, vitalità e scommessa su giovani talenti.
Sarebbe ingeneroso affermare che tra i 333 artisti e collettivi presenti alla Biennale non vi siano personalità interessanti ai Giardini e alle Corderie (notevoli per esempio le installazioni e i video di Anna Maria Maiolino e di Gabrielle Goliath) ma nel complesso si ha l’impressione, soprattutto all’Arsenale, che nella cavalcata tra storie e immagini edificanti, tra palme esotiche e ricami, abbondino media tradizionali e iconografie inoffensive, prive di mordente e spesso di modesto esito formale. Le rappresentazioni del diverso che abbiamo visto non possono limitarsi a grafici illustrativi dei percorsi dei migranti, segnalati su carte geografiche. Forse dovrebbero indicare un viaggio più profondo. L’esperienza artistica non è riducibile a pedagogia etica; deve invece basarsi sull’efficacia estetica, assunto fondamentale con cui valutare un’opera d’arte e la riuscita di una mostra, come afferma Jacques Ranciere in Lo Spettatore emancipato.
Il luogo della trasformazione non è necessariamente nel campo delle culture subalterne, anche se è importante farle conoscere al grande pubblico. Non solo: le opere esposte, talora insignificanti, si riscattano per lo più attraverso la didascalia, ovvero la storia personale dell’artista, sempre proveniente da un altrove lontano dal mondo di sconvolgimenti politici e sociali in cui viviamo attualmente. Ad avviso di chi scrive, sono altre le occasioni d’incontro e di riflessione a Venezia, in questo periodo.
Venezia infatti si veste a festa e apre le porte non solo dei Giardini e dell’Arsenale per la Biennale, ma anche di numerosi musei, chiese e palazzi disseminati in tutto il contesto urbano e che quest’anno in particolare, offrono un ventaglio di riflessioni su temi affrontati in modo più sostanzioso e trasformativo, a partire dalla mostra su Marco Polo a Palazzo Ducale.
Questo evento eccezionale ricorda ai visitatori, a 700 anni dalla sua scomparsa, l’audacia del giovane viaggiatore veneziano che spintosi fino in Asia diventò amico e consigliere di Kubla Kahn, l’uomo più ricco e potente del mondo in grado di unire tutta la Cina in un singolo immenso impero. Venezia fin dal 1200 si era dimostrata una città multietnica e multiculturale, felice punto di incontro tra oriente e occidente, esempio di positiva accettazione dell’alterità, di innovativo spirito imprenditoriale e di fiorenti commerci internazionali. L’artista italo-americano Lorenzo Quinn, figlio del grande attore premio Oscar Anthony Quinn, ha animato Cà Rezzonico sul Canal Grande con le figure più significative che hanno popolato nei secoli la Serenissima, in una sequenza di sculture di rete metallica quasi impalpabile ed evocando figure storiche emblematiche come Marco Polo, Giacomo Casanova, Carlo Goldoni, Antonio Vivaldi, Andrea Palladio, Tiziano Vecellio, Caterina Cornaro e Rosalba Carriera.
Uomini e donne illustri, che hanno plasmato culturalmente Venezia, raccontano la propria storia e quella della città evidenziando il potere della Serenissima di un tempo in contrasto con la fragilità territoriale e climatica di oggi. La sera queste presenze si fanno luminose e prendono ancor più vita al piano nobile del Palazzo, in una visione poetica e magica veicolata con il supporto della realtà aumentata.
Il Museo Correr in Piazza San Marco non è da meno nel proporre originali accostamenti tra il passato patrimonio artistico e il presente, capaci di innescare ambiziose riflessioni con la forza innovativa di una pratica artistica contemporanea, che crea un nuovo vocabolario colto e propositivo. La quadreria al suo interno rivela in modo del tutto inedito il cuore dell’edificio, ovvero la parte più segreta realizzata in modo incomparabile dall’architetto veneziano Carlo Scarpa, che interagisce per la prima volta con le opere di Francesco Vezzoli create ad hoc per questa occasione.
L’ala scarpiana, così preziosa e nota a pochi, viene in questo modo riscoperta e valorizzata grazie all’impegno di questo originale artista contemporaneo che riattiva le nostre emozioni conducendoci per mano attraverso le varie sale, prima secondo canoni filologici e poi in modo sempre più libero e giocoso, fino a cogliere in pieno la storia del palazzo stesso e dei dipinti in esso esposti. Le opere di Francesco Vezzoli si inseriscono armoniosamente nel contesto, fino a culminare in una complessa opera dedicata a Carlo Scarpa ritratto come Doge, alla stregua di Leonardo Loredan dipinto da Vittore Carpaccio, impreziosito da una lacrima, al cui interno vi è una citazione giottesca Il Compianto di Cristo morto. Chiaro è il riferimento non solo alla patavina Cappella degli Scrovegni ma anche al fatidico bacio di Giuda, allusione al tradimento dei colleghi di Scarpa che, nella loro gretta meschinità, non gli hanno mai perdonato di essere il più bravo in assoluto anche se non in possesso di un diploma di laurea.
Vale la pena menzionare, accanto al Museo Correr, la mostra personale di Tony Cragg al negozio Olivetti, a cura di Jean Blanchaert e Cristina Beltrami, in cui preziosi schizzi a matita e a china su carta interagiscono con venti rare opere in vetro monocromo trasparente messe a disposizione dallo studio Berengo di Murano, che da oltre quindici anni collabora con l’artista inglese. Le affianca un’opera in vetro nero, creata per consacrare la prima collaborazione dell’atelier internazionale muranese con il Fai, che ha la responsabilità di gestire lo spazio ora museale del negozio realizzato da Carlo Scarpa. Un’altra chicca è offerta dalla chiesa di San Gallo, a pochi passi di distanza, che ospita grandi sculture non finite di Jeame Plensa: volti di donne appena abbozzati che chiudono gli occhi alle guerre e all’insipienza contemporanea per trovare nell’interiorità le risorse per superare questi tempi bui e minacciosi. La mostra è curata dal grande artista spagnolo, giunto per l’occasione da Barcellona, e da Adriano Berengo che ha partecipato alla Biennale 2024 realizzando opere in vetro per cinque diversi padiglioni nazionali (Austria, Benin, Egitto, Estonia, Venezia). Le grandi opere in alabastro vengono qui contrapposte a piccole sculture in vetro opaco perfettamente rifinite e collocate, quasi con devozione e fede nell’arte, sui tre altari della piccola chiesa. Il risultato è di grande impatto spirituale e ricorda, per intensità e magia, alcune installazioni del video artista californiano Bill Viola.
Altro intervento mirato è quello del collezionista canadese Bruce Baily alla chiesa di San Samuele, accanto a Palazzo Grassi: è qui esposta, a ragion veduta, la suite completa di 82 incisioni di Francisco Goya intitolata Disasters of War, dedicata alle tragiche conseguenze delle guerre napoleoniche in Spagna all’inizio dell’ottocento; vi si affiancano il ciclo di opere grafiche dell’artista francese Jacques Callot dal titolo The Miseries and Misfortunes of War, sulle atrocità commesse dai francesi in Olanda nel 1672, e le incisive opere dell’espressionista tedesco Otto Dix sugli orrori della prima guerra mondiale. Queste serie storiche interagiscono con opere di artisti canadesi e olandesi contemporanei come Paterson Ewen, Jack Chambers e Folkert de Jong. Ad attirare l’attenzione del pubblico e della stampa anche un’inedita poesia di Margaret Atwood sulle conseguenze letali di ogni guerra, scritta per l’occasione e stampata in formato gigante.
La collezione Pinault presenta, a Palazzo Grassi e a cura di Caroline Bourgeois, la retrospettiva Ensemble di Julie Mehretu, artista americana di origine eritrea le cui composizioni astratte si focalizzano sulle trasformazioni socio-politiche dei centri urbani; a Punta della Dogana la mostra Liminal di Pierre Huyghe, a cura di Anne Stenne, indaga il rapporto tra umano e non umano che ha assorbito continuativamente l’artista negli ultimi dieci anni.
Alle gallerie dell’Accademia, una grande mostra di lavori ispirati ai soggiorni italiani dell’artista espressionista astratto Willem de Kooning a cura di Mario Codognato sembra gareggiare, per portata culturale, con la mostra di Jean Cocteau alla Peggy Guggenheim, di inattesa pregnanza e versatilità, con esemplari di un’eclettica produzione artistica che include opere di poesia, arte visiva, design, teatro, cinema, e video arte, nonché sperimentazioni di grande raffinatezza in vetro realizzate a Murano negli anni ’40 e ’50. Da non trascurare, alla Fondazione Vedova, i paesaggi rarefatti di Eduard Angeli, artista austriaco che da anni vive tra Vienna e Venezia, come pure la mostra del vetro all’isola di San Giorgio dove si possono ammirare rari esemplari di opere d’arte in vetro esposti a pieno titolo nelle prime Biennali a Venezia fino alla fine degli anni 20.
Di particolarissimo interesse, per la valenza etico-sociale, è il Padiglione vaticano con l’esibizione intitolata “Con i miei occhi” ambientata nel carcere femminile della Giudecca, in un percorso senza precedenti a cura di Bruno Racine e Chiara Parisi. Le opere sono il frutto dell’incontro tra gli artisti Maurizio Cattelan, Simone Fattal, Corita Kent, Claire Fontaine e Marco Aloy e le ottanta detenute della struttura. La visita alla mostra, necessariamente contingentata, diventa un benefico incontro tra il pubblico e le detenute stesse, che può arrecare sollievo alla frustrazione di una vita condannata all’isolamento. Mentre lo Stato si occupa per lo più dell’espiazione della pena, in questa occasione attraverso l’arte si attiva invece una forma di rieducazione delle recluse, secondo un imperativo etico che spinge a vedere oltre i pregiudizi e incentivare la speranza in un luogo di emarginazione e di dolore.
Le parole del neo-presidente Buttafuoco sono appropriate nel ribadire che la Biennale è luogo di intelligente confronto e accettazione dell’alterità. Una Biennale di pace e di empatia verso il diverso, “aperta al mondo in un’epoca di profondi cambiamenti proiettata in un futuro che, sulle orme di Marco Polo, è sempre più universale dove nessuno è più un barbaro ma un cittadino che riconosce nell’altro la propria umanità”. Resta comunque il fatto che, come ha acutamente osservato Ludovico Pratesi, il 60 per cento degli artisti esposti non sono vivi e il Padiglione Italia, se da un lato invita ed educa all’ascolto, dall’altro preclude ad altri artisti la possibilità di farsi conoscere nel mondo. La missione intrinseca della Biennale, che per prima indica la strada, invita alla sperimentazione e incoraggia i giovani soprattutto del Paese che la origina e la ospita; con la formula di quest’anno, tale missione viene un po’ meno e si arena in una vasta rassegna multicolore, informativa più che formativa.
In un periodo di conflitti reali, minoranze subalterne, sfruttamento e razzismo, Venezia supplisce a queste carenze con un’offerta culturale diffusa di grande intensità e mostra ancora una volta al mondo intero come, attraverso l’arte, sia possibile offrire autentiche occasioni di crescita personale e trasformazione.
Julie Mehretu TRANSpaintings Palazzo Grassi
Francesco Vezzoli, Ritratto di Carlo Scarpa, museo Correr
Jaume Plensa, Ianus, Chiesa di San Gallo
Tony Cragg, Untitled, Negozio Olivetti
Claire Fontaine, Stranieri Ovunque, Arsenale e Giardini
Massimo Bartolini, DueQui/TwoHere, Padiglione Italia
Jeffrey Gibson, Ancestors, Padiglione USA
Eduard Angeli, Il Redentore, Fondazione Vedova
Umberto Bellotto, Connubio di ferro e vetro, Stanze del Vetro. Isola di San Giorgio 1920-4