“Uno spazio radicale, intransigente, avventuroso, pervaso da genuina curiosità verso tutte le possibilità del cinema”. Sono le parole con cui il Locarno Film Festival introduce la sezione “Concorso Cineasti del Presente”, dedicata a registi esordienti o al loro secondo film, rigorosamente presentati in anteprima mondiale. La 77esima edizione del Festival, andata in scena dal 7 al 17 agosto scorsi, ha visto trionfare in questa categoria l’opera prima del regista georgiano Tato Kotetishvili, “Holy Electricity”.
I protagonisti, interpretati da attori esordienti, sono una coppia che il fato ha appaiato per ragioni di forza maggiore: da un lato Gonga (Nika Gongadze), adolescente dall’aria spiantata che ha appena perso il padre, dall’altro Bart (Nikolo Ghviniashvili), lo zio transgender a cui il morituro ha affidato la custodia del figlio. Il tono surreale che accompagna il film viene dichiarato fin dalla sequenza iniziale, che si apre sulla cerimonia funebre del padre di Gonga, con la bara che viene sollevata da un gruppo di uomini e fatta ruotare vorticosamente all’interno di una piccola stanza. Un brusco boato interrompe la scena per portarci in una discarica, dove un gigantesco masso è appena stato scaricato da una gru sulla carcassa di un’auto.
Proprio la discarica ha un ruolo centrale nella vicenda ambientata a Tbilisi: da essa Bart e Gonga recuperano oggetti che poi riutilizzano o rivendono, guadagnandosi i pochi soldi che gli permettono di tirare avanti. Il loro destino sembra giungere a una svolta quando Gonga, mettendo insieme qualche pezzo di ferro e una luce al neon, decora la tomba del padre con una croce luminescente che riceve l’immediato apprezzamento di alcuni passanti. Scaturisce in loro l’idea di realizzare croci al neon di varie dimensioni, per poi venderle porta a porta per le strade di Tbilisi. Questo li porta a visitare gli appartamenti di un’umanità multiforme, le cui case sono abitate da miriadi di oggetti, accumulati gelosamente, o di animali, trattati in alcuni casi come veri e propri essere umani a cui manca solo la parola per esprimere i propri stati d’animo.
Kotetishvili, già direttore della fotografia e in questo caso anche regista, si serve di lunghe e statiche riprese per far entrare all’interno dell’inquadratura quanta più realtà possibile. Lo stesso regista racconta al pubblico di Locarno di come, in diversi casi, le azioni di personaggi eccentrici incontrati per strada sono state inserite nel film al pari di quelle previste dalla sceneggiatura. Il ritmo cadenzato delle immagini pare assecondare il respiro lento della città, protagonista della vicenda tanto se non più delle persone che la attraversano. L’affresco dipinto dal regista, nato proprio a Tbilisi, rappresenta una comunità ai margini, costretta a vivere di espedienti dalla società capitalista che si è affermata anche in Georgia nonostante il passato sovietico. Le immagini catturate da Kotetishvili ricordano in parte quelle di un altro regista georgiano, Alexandre Koberidze, il cui “What Do We See When We Look at the Sky?”, presentato nel 2021 al Festival di Berlino, metteva in luce la bellezza insita nelle esistenze comuni degli abitanti di Kutaisi, altra città georgiana.
Se però il film di Koberidze seguiva una struttura narrativa ben definita, “Holy Electricity” si sviluppa senza una meta precisa. Gli stessi dialoghi, in gran parte improvvisati dagli attori, non sembrano voler condurre la vicenda verso una qualsiasi conclusione: “Ho lasciato che gli attori dialogassero liberamente: magicamente, sono sempre riusciti a dare vita a conversazioni significative, che ho potuto includere nel film”. Lo stesso processo di montaggio del film ha beneficiato di un alto grado di libertà: “Abbiamo cercato di non visionare le sequenze troppe volte, per non rischiare di affezionarci. Inoltre il fatto di aver avuto a disposizione molto tempo ci ha permesso di lasciar passare lunghi periodi tra le diverse fasi di lavorazione: questo ci ha aiutato a giudicare le immagini in modo distaccato, selezionando solo quelle realmente necessarie” racconta a Locarno il montatore Nodar Nozardze.
La frammentazione che caratterizza il film si accentua ancor più nel finale, quando Bart e Gonga prendono strade separate. Qui le immagini prevalgono sulle parole, con le croci al neon che si stagliano nella notte di Tbilisi. Chiude il film una scena tanto slegata dalla trama quanto poetica nella sua semplicità: un gruppo di ragazzi ripresi in slow-motion ballano, spensierati, sulle note composte dal musicista georgiano Vakhtang Kantaria. Poi scorrono i titoli di coda, mentre sullo schermo uno dei personaggi già apparsi nel film, con una folta barba bianca, suona maldestramente una batteria. Se da un lato a Kotetishvili si può imputare una certa approssimazione nell’accostare spaccati di vita tanto umili quanto stravaganti, con l’unico scopo di renderli attraenti agli occhi del pubblico, è altrettanto vero che, grazie a immagini potenti e a tratti ridondanti, il regista mette in scena la sua città e i suoi curiosi abitanti senza filtri, con l’unico scopo di raccontare una comunità che, nonostante tutto, rimane unita e attaccata alla propria identità, qualunque essa sia.