Un itinerario poetico articolato in una serie di racconti legati all’arte prodotta in Brasile a partire dal secondo Dopoguerra. La mostra Vai, vai, Saudade, allestita nelle sale del Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina (Madre) di Napoli, curata da Cristiano Raimondi, fino al 30 settembre 2024, prende il titolo da una samba composta da Heitor dos Prazeres (Rio de Janeiro, 1898 – 1966), artista carioca che fu tra i primi a subire la censura della dittatura militare nel 1964.
Organizzata per associazioni e dialoghi tra diversi artisti, l’esposizione mette in correlazione l’opera Livro da Arquitetura (1959-60), di Lygia Pape (1927-2004), che descrive la storia dell’uomo come costruttore di civiltà attraverso un inventario di modelli architettonici, con la via sacra dell’artista della regione di Acre, Hélio Melo (1926-2001), che racconta la distruzione dell’habitat naturale da parte dell’essere umano definito “civilizzato”. Il percorso della mostra si conclude con la serie Era uma vez a Amazônia di Jaider Esbell (1979-2021), dove l’artista narra dell’impoverimento delle popolazioni originarie dell’Amazzonia e del futuro incerto di questa terra. Dalla fine della schiavitù, abrogata soltanto nel 1888, alle immigrazioni di massa, fino al più recente “bolsonarismo”, il Brasile ha vissuto tra positivismo e democrazia, dittatura e censura, frustrazione e speranza, senza mai abbandonare lo spirito resiliente tipico dei paesi coloniali: ha esportato la lotta per i diritti delle popolazioni originarie e afrobrasiliane in tutto il mondo. L’exihibit mostra questa nazione come terra fertile di idee e di rivoluzioni artistiche che ha saputo costruire una identità basata sulla valorizzazione del multiculturalismo e sulla fusione di linguaggi plurimi. E’ dall’inizio del secolo scorso tra i grandi attori delle avanguardie nella scena mondiale, attraverso l’osservazione delle culture ancestrali o semplicisticamente considerate popolari.
Ad accogliere i visitatori al piano terra del museo è l’installazione di Ana Mazzei (1979), che attinge alla letteratura e al teatro. Facendo uso dell’immaginario di narrazioni epiche o mitologiche, i suoi lavori suggeriscono una performance, in cui non è chiaro chi osserva e chi è osservato. Gli oggetti e le sculture sono messe in relazione al corpo umano e riflettono su come le nostre nozioni di orientamento, posizionamento e organizzazione influiscono sul modo in cui ci confrontiamo con lo spazio. Con Espetàculo, l’artista propone un nuovo territorio d’azione, in cui gli oggetti sono collocati nell’ambigua posizione di essere i protagonisti di una rappresentazione teatrale senza movimento.
Al secondo piano, il percorso espositivo inizia con una serie di disegni, Via Sacra na Amazônia, di Hélio Melo, che raffigurano la storia di Cristo come seringueiro nella foresta amazzonica. Il seringueiro è un lavoratore che estrae il lattice dagli alberi della gomma ed è da considerarsi come un “prigioniero” che lavora o da solo, secondo le regole molto rigide imposte dal datore di lavoro, o in un gruppo auto-organizzato (quindi “libero”). Melo, a 33 anni lasciò il seringal di famiglia, per trasferirsi nella tenuta di São João d’Acre, dedicandosi alla raccolta della gomma. La serie di diciannove disegni in mostra è stata pubblicata, inizialmente, come cartilha, un materiale editoriale accessibile a basso costo, che mirava a sensibilizzare la politica attraverso l’educazione su vari temi, come le lotte dei lavoratori di gomma e la distruzione della foresta pluviale. Essi ritraggono una visione contemporanea di Cristo, basata sulla Teologia della liberazione, e si confronta con la realtà amazzonica dell’emarginazione e dello sfruttamento delle popolazioni indigene e degli estrattori di lattice. Questa narrazione di Cristo lavoratore si oppone in questa sala, alla visione “sviluppista” contenuta nel Livro da Arquitetura, di Lygia Pepe. Quest’ultimo è un libro-oggetto che l’artista realizzò tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del Sessanta: esso presenta panoramiche di costruzioni architettoniche, di epoche e culture diverse, organizzate in una storia che parte dalle pitture rupestri del Paleolitico, fino all’uso del cemento armato nella società moderna.
Nella seconda sala, i lavori di Maria Martins (1894-1973) e Tomie Ohtake (1913-2015) rappresentano l’intersezione di culture diverse e le loro reciproche influenze. Saudade, è una parola che in portoghese brasiliano indica la cosciente consapevolezza della fugacità di un momento, di un luogo o di un essere. Nelle parole della Martins, “saudade” è “come una campana che risuona nel cuore”. La sua opera è stata realizzata nel periodo in cui l’artista viveva a Parigi. La scultura raffigura il corpo contorto di una donna con la testa senza occhi, la bocca aperta e i capelli lunghi e sottili. Le gambe e le braccia sono modellate come tentacoli o radici. Spesso l’immaginario delle sue statue deriva dai miti amazzonici, in cui le figure umane vengono plasmate in animali o creature mostruose.
Tomie Ohtake, invece, si recò in Brasile dal natìo Giappone nel 1936, per far visita ad uno dei suoi fratelli, ma a causa degli eventi legati alla Guerra del Pacifico non riuscì a tornare sul suolo nipponico e si stabilì a San Paolo. Si unì ad un gruppo di artisti giapponesi, denominato Gruppo Seibi. Attraverso l’astrazione, il colore e la forma, il suo dipinto, Untitled, fa riferimento alla bandiera brasiliana. Due linee simmetricamente curve si incontrano sulla superficie divisa diagonalmente in due campi. I colori sono scuri e l’espressività è ancora più ruvida rispetto alla pennellata.
Un anno molto importante nella storia brasiliana è stato il 1956, con la fondazione dell’industria automobilistica nazionale, con il lancio dei progetti della nuova capitale, Brasilia, e la diffusione dell’ideologia “sviluppista” in economia e in politica. Nello stesso anno venne inaugurata la Prima Mostra Nazionale di Arte Concreta, presso il Museo di Arte Moderna di San Paolo. Sono visibili nell’exihibit le opere di diversi artisti e poeti, in cui sono evidenti le differenze estetiche e teoriche, come Lados Ligados I, di Hércules Barsotti (1914-2010), in cui vi è un uso espressivo del colore e, Untitled, di Mira Schendel (1919-1988), caratterizzato dall’utilizzo del linguaggio e della poesia.
Generazioni diverse, ma con un comune senso di indipendenza, sia nella vita, sia nell’arte, contraddistinguono Eleonore Koch (1926-2018) e Ana Prata (1980). Koch nacque a Berlino da una famiglia ebrea, in fuga dalle persecuzioni naziste, emigrò in Brasile. Qui, studiò la pittura a tempera osservando i lavori di Alfredo Volpi (1896-1988). In Laranja Azul (Blu orange), ha realizzato un insieme di elementi visivi in luoghi differenti che restituiscono una personale percezione e un senso di familiarità. Nel lavoro di Ana Prata, invece, c’è una ambiguità latente che si muove fra l’umorismo, l’interiorità e lo spirito critico. I suoi dipinti colorati e figurativi, Monumento e Relva, Prato, Grass, rappresentano immagini di natura morta di frutta e oggetti che sembrano essere ritagliati dal paesaggio. E’ un mondo interiore appena accennato, in quanto non descrittivo del contesto; al contrario, ci pone di fronte a un dialogo lirico e simbolico con la sfera domestica.
Misticismo della fauna e della flora brasiliana caratterizzano l’arte di Niobe Xandò (1915-2010). I suoi dipinti su tronchi d’albero, Totem II, Totem III e Totem VI, rivelano un tipo di sperimentazione pittorica che assume la residualità organica come materia e immagine. E nella stessa direzione tra natura e immaginario, si incontrano le opere di Niobe Xandò, Jaider Esbell (1979-2021) e Francisco (Chico) da Silva (1910-1985). In Roças de Makunaimi, Jaider Esbell rappresenta esseri mitologici le cui apparizioni grafiche si stagliano su uno sfondo scuro in una atmosfera spettrale. La costruzione stratificata di questi esseri deriva dall’immaginario indigeno dell’etnia Makuxi, a cui l’artista appartiene. Questo popolo vede il cosmo come una sovrapposizione di dimensioni che si interconnettono e si alimentano a vicenda.
Francisco (Chico) da Silva ha creato una sfera visiva basata sulla figurazione di composizioni favolose e fantastiche. Nell’opera Untitled, il suo universo rivela una intensa relazione tra la fauna e la flora, come personaggi di varie narrazioni in conflitto e lotta per la sopravvivenza. Il suo bestiario nasce da riferimenti narrativi dei luoghi del nord e del nord-est del Brasile, dove trascorse la sua infanzia. Anche l’artista Rubem Valentim (1922-1991) studiò nella stessa zona. Egli si ispira al sincretismo religioso che caratterizza la città di Salvador. Le sue opere, Unitled e Composiçao, mescolano elementi di varie religioni, attingendo soprattutto al simbolismo afro-brasiliano. Sebbene collegato al Movimento Arte Concreta, i suoi lavori sono legati alla spiritualità e alla dimensione dell’invisibile.
Nella quinta sala, l’attenzione è rivolta a Heitor dos Prazeres (1898-1926). E’ stato un artista, costumista, compositore e cantante di samba, riconosciuto come una figura importante a Rio de Janeiro. Poliedrico e autodidatta, il suo ingresso nell’ambiente carioca è avvenuto attraverso la musica. Nella seconda metà degli anni Trenta, iniziò a dedicarsi alla pittura, affrontando i temi, le tradizioni e la cultura popolare brasiliana. I suoi lavori, Untitled, e A mulher do poço, riflettono la realtà della popolazione, in un’epoca in cui l’élite culturali di Rio de Janeiro privilegiavano ancora i valori colonialisti degli europei bianchi. Sfidando questo ambiente sociale, l’artista ha ritratto ciò che ha visto e vissuto come uomo nero: i flussi migratori degli africani e dei loro discendenti dalle campagne ai centri urbani, la repressione della polizia, la capoeira, la samba, l’affettività e gli spazi del Candomblé e dell’Umbanda.
Nella sesta sala, sono le opere di tre artisti ad occupare lo spazio espositivo. Il lavoro di Adriana Varejão (1964) è incentrato sulla riflessione del colonialismo e della identità brasiliana. E’ nota per le sue indagini sul barocco, sui tatuaggi e sulla ceramica portoghese. Nelle sue opere, Azulejao (Volute), la pittura a olio assume massa e materia scultorea, collocandosi tra ornamento e abiezione, tra bidimensionalità e tridimensionalità. L’idea di rovina attraversa il suo lavoro ed è simboleggiata dalle crepe che ci invitano a riflettere sulle ferite aperte, lasciate dal trauma della colonizzazione. La storia dei vincitori rivela il suo volto più violento e barbaro: il decadimento della civiltà.
A questa storia traumatica della tratta transatlantica degli schiavi fanno eco le opere di Sidney Amaral (1973-2017). Attraverso un linguaggio artistico molto diverso, egli riflette sulla questione razziale. Utilizzando spesso le immagini del proprio corpo, con malinconia e furia, esplora la condizione attuale delle persone di colore in Brasile. Allo stesso modo, Arjan Martins (1960) realizza scene del passato e del presente, piene di ricordi personali e collettivi. Con l’alternanza di zone più o meno dettagliate, lasciando trasparire la superficie del tessuto della tela, le sue cartografie e le sue immagini marittime, Untitled, rimandano ai flussi e alle rotte della traversata del “triangolo atlantico”, e che ha alimentato l’economia schiavista tra Europa, Africa e America. L’artista mette in scena la diaspora black, di cui egli stesso fa parte. Nei suoi dipinti ricombina segni ritrovati a diverse latitudini e longitudini, come ad esempio la sagoma di una montagna nella baia di Guanabara, la struttura di una nave britannica del XIX secolo, o il volto enigmatico di una ragazza fotografata a New York negli anni Sessanta.
Basandosi sul concetto di autoritratto e utilizzando materiali dal valore simbolico e biografico, Maxwell Alexandre (1990) mette insieme immagini legate alla vita quotidiana di Rocinha, la favela più grande di Rio de Janeiro. In Especial de praia II, ritrae diversi personaggi senza tratti distintivi del viso, alcuni dei quali con capelli ossigenati e con pelle scura, come se fossero diverse versioni dell’artista stesso. Le grandi dimensioni dell’opera e l’abbondanza di personaggi impegnati in varie azioni richiamano la tradizione della pittura di storia nell’arte brasiliana, presentandoci una immagine molto specifica della “brasilianità”.
Al contrario, le Lavadeiras, di José Pancetti (1902-1958) ritraggono donne nere di Bahia in contesti lavorativi sulla spiaggia. La distanza tra l’artista e i soggetti è tale che non si distinguono i tratti del viso. Ciò che risalta sono le qualità pittoriche della luce e del colore, e una sorta di osservazione idealizzata visibile nella scena.
A chiudere la prima metà del percorso espositivo è l’opera di Matheus Rocha Pitta (1980), costituita da terra impacchettata con del nastro adesivo, confezionata come se fosse un narcotico, in una metafora di manipolazione e controllo del territorio, suggerendo la demarcazione e la confisca del paesaggio circostante.
L’ottava sala ospita alcuni lavori che sono stati realizzati in periodi diversi della storia brasiliana, dai primi anni Settanta fino agli ultimi anni, cronologicamente distinti, ma concettualmente legati dalla valutazione critica di due precisi momenti: il decennio successivo al colpo di Stato militare e i primi anni del decennio attuale. Lo spostamento, l’isolamento, l’impatto della pandemia Covid-19, le crescenti minacce ai diritti dei lavoratori e la democrazia in pericolo in Brasile, sono temi che attraversano questi manufatti, connettendo idealmente questi due periodi. Quando l’artista Antonio Dias (1944-2018) realizzò i suoi dipinti neri, si trovava in esilio, in Europa. Mappe, diagrammi e relazioni tra immagini misteriose e parole evocative sono i tratti distintivi della sua pratica.
In In-mensa, Cildo Meireles (1948), la cui creatività politica è nota a livello internazionale, si appropria di oggetti di origine domestica, alterandone la configurazione, le proporzioni e il contesto abituale per creare una scultura che consente diverse interpretazioni. Formata da una struttura architettonica in cui, sfidando la logica, gli elementi più piccoli sostengono quelli più grandi. L’opera mette in discussione le nozioni di gerarchia e di equilibrio che possono essere letti negli ordini della società, della politica e dell’economia. La stessa riflessione critica si registra nel video di Jhony Aguiar (2001), dove il protagonista cerca di cantare l’inno nazionale brasiliano con una pistola in bocca, metafora della violenza del Paese.
Attraverso la sua pratica, Lucia Koch (1966) instaura un dialogo profondo con l’architettura, sia nel modo in cui il suo lavoro interagisce con lo spazio che occupa, rispettandone le specificità fisiche e storiche, sia creando spazi immaginari a partire da oggetti banali, provocando e riorientando la percezione, come in A esposa- para AD, dove riorganizza la visione degli spazi e stabilisce un significato pubblico dell’opera.
Topografia evasiva (Calvisano), di Renata Lucas (1971), è un frammento di substrato con perforazioni circolari che mostra gli strati inferiori di una base di cemento, come se fossero dei manufatti “archeologici”.
Nella nona sala, la creatività di Lidia Lisbôa (1970) si sviluppa attraverso diversi media: scultura, uncinetto, performance e disegno. La sua ricerca ruota attorno all’intreccio di biografie, mediante il corpo e la memoria, utilizzando materiali su cui sono impressi i gesti e le mani dell’artista. Nei termitai, l’artista rivaluta un elemento presente nel paesaggio della sua infanzia nell’entroterra brasiliano.
Come Lisbôa, anche Conceição Freitas da Silva (1914-1984) è un’artista di origine indigena, divenuta famosa per la produzione delle cosiddette bugres: sculture in legno ricoperte di cera e vernice che ha realizzato nel Mato Grosso do Sul. Un altro scultore presente in mostra è Agnaldo Manuel dos Santos (1926-1962), artista che ha esplorato in modo diverso le statue dei santi cattolici, gli ex-voto e le carrancas. Lo stesso accade con i riferimenti all’universo africano e afro-brasiliano del Candomblé. Le sculture carrancas o polene hanno la forma di essere umano o di un animale, sono realizzate in legno e venivano utilizzate sulla prua delle imbarcazioni che navigavano lungo il fiume São Francisco.
Nato in una famiglia di pescatori, lavandaie e carranqueiros, Davi de Jesus do Nascimento (1997) si dedica alla pittura, al disegno e alla scultura. Le sue opere, Furor de peito e remela, si rifanno alla produzione artigianale formale e materiale delle carrancas. Sfidando i dogmi del modernismo e della pittura contemporanea, Alex Cerveny (1963), da quarant’anni dipinge preziosi mirabilia, Meu Paraguai, dove intreccia i miti arcaici.
Figurazione semplificata, colorazione vivace, temi e narrazioni popolari e quotidiane avvicinano la pittura di Miriam Inez da Silva (1937-1996) a una estetica naïf, eppure anche i pochi dati biografici disponibili sull’artista minano ogni senso di casualità in questi termini. Nella sua semplicità, la sua pittura, Untitled, è piuttosto elaborata, sia nel suo aspetto artigianale, sia nella scelta dei temi di origine popolare: conosce la storia dell’arte, sa come comporre un quadro anche quando sceglie prosaici supporti di legno. Bajado (1912-1996) è un artista che guarda all’universo delle celebrazioni popolari, in particolare al Carnevale di Olinda, una città dello Stato di Pernambuco, in Brasile. Egli è stato molto coinvolto in questa manifestazione, dipingendo decorazioni, creando allegorie, striscioni e fondando il Maracatu Cata-Lixo nel 1935. Inoltre, inserisce sé stesso nelle scene ritratte, anche per ribadire il suo amore per Olinda, per lo stile di vita bohémien. La sua opera riecheggia nella serie di disegni di Alex Cerveny ispirati alle popolari telenovelas brasiliane e a Pinocchio.
Undicesima sala, tre artisti in mostra. I membri del Movimento Armorial furono Ariano Suassuna (1917-2014), Miguel dos Santos (1944) e Gilvan Samico (1928-2013). Nel 1970, questi artisti si riunirono con un programma che cercava nelle manifestazioni della cultura sertanejo, gli elementi per una autentica “arte totale” brasiliana. Così l’Armorial entrò con il suo stile barocco nel cinema, nel teatro, nella musica, nella pittura, nelle incisioni e nella letteratura. I loro lavori incorporavano i linguaggi artistici presenti nelle feste regionali, nel folklore e nella letteratura cordel. Recuperarono le pitture e le incisioni rupestri trovate nelle pietre di Ingà, una città del Paraiba, che presentavano tratti culturali di un popolo che attraversò questa terra. In Gilvan Samico e Miguel dos Santos, le narrazioni folcloristiche e mitologiche sulla creazione del mondo costituiscono un bestiario figurativo, intriso di realismo magico. Le incisioni di Samico uniscono queste belve ai simboli e ai motivi di una forma popolare e sincretica di cattolicesimo. Nelle “illuminoincisioni” di Suassuna, i temi letterari di autori portoghesi e regionali sono abbellite da grafiche, oggetti della cultura materiale e figure simboliche, come il caetana jaguar, nello stile dell’araldica medievale di origine iberica.
Nelle sue varie fasi, l’arte Armorial ha cercato di salvare un passato semplice e incantato di uno stile di vita sertanejo che sembra imporsi all’immaginazione di questi artisti. Tuttavia, essi non hanno mai abdicato ai mezzi moderni e industriali di riproduzione dell’arte per garantire un maggiore successo al coronamento della cultura popolare regionale.
Nella dodicesima sala, i repertori visivi e tecnici di Juraci Dórea (1944), sono in stretto dialogo con l’artigianato e le narrazioni popolari, in un rapporto simbiotico con il paesaggio del Sertão, il retroterra brasiliano. Una delle serie più iconiche, nota come Estandartes do Jacuipe, iniziata nel 1975, vede Dórea appropriarsi delle tecniche di lavorazione del cuoio e di motivi decorativi spesso utilizzati per le selle e l’abbigliamento dei cowboy, ma qui sublimati in oggetti privi di scopi utilitari o pratici. Nello stesso periodo, influenzato anche dalla letteratura brasiliana Cordel, oltre ai dipinti su tela e alle targhe della serie Historia Do Sertão, egli ha realizzato diversi interventi collocando motivi simili direttamente sulle facciate delle case dei villaggi. Attraverso questi gesti, ha messo in discussione la scena artistica contemporanea brasiliana e ha aperto prospettive inedite per quanto riguarda le opere d’arte inserite nel paesaggio. Allo stesso modo, Jose Antonio da Silva (1909-1996) ha iniziato a disegnare, utilizzando materiali come foglie e pezzi di sacchi di caffè o eseguendo lavori direttamente sulla sabbia. Vivendo in un villaggio, da Silva si affidava all’agricoltura di sussistenza e alla caccia/raccolta. Con l’espansione del latifondismo nel corso del XIX e XX secolo, persero gradualmente il loro stile di vita e furono costretti a lavorare nelle grandi tenute. Di conseguenza, la loro cultura è scomparsa. Le sue tele ritraggono il carattere cupo di questi paesaggi rurali.
Nell’ultima sala del percorso espositivo, i sedici disegni della serie It Was Amazon, in diversi strati di linee bianche tracciate su sfondo nero, Jaider Esbell (1979-2021) ritrae la situazione di discrepanza e impoverimento delle popolazioni indigene della foresta amazzonica, nella loro dimensione sociale, politica ed ecologica. Definendo le sue proposte creative come “artivismo”, la sua ricerca combina discussioni intersecanti tra arte, ascendenza, spiritualità, storia e memoria. Spiccano le sue riflessioni sul “txaismo”: un modo di tessere relazioni di affinità in circuiti artistici interculturali con al centro la pratica popolare dei nativi americani. Nel campo della critica decolonialista, la sua traiettoria e la sua ricerca pratica mostrano ciò che di solito viene vissuto a livello prettamente discorsivo.