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La Bussola di Ago. Venezia81 riparte dalle Milf, ma fa cilecca

Beetlejuice, Beetlejuice Beetlejuice, Beetlejuice, di Tim Burton
Beetlejuice, Beetlejuice
Beetlejuice, Beetlejuice, di Tim Burton

Prima infornata di resoconti (delusi) dei film presentati all’edizione 2024 della Mostra del Cinema di Venezia

– Sembra l’altro ieri che è finita Venezia80, ed eccoci già a Venezia81

– Da quando sei al Lido?

– Dalla serata di pre-inaugurazione, dove si è visto insieme a un pubblico di selected people il restauro curato da Cinecittà de “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica. Servono sempre, queste serate in anticipo sull’inizio del Concorso vero e proprio, per ristabilire – dopo un’annata intera di cazzate televisive e di uscite cinematografiche non tutte eccelse – un metro di qualità estetica con il recupero di capolavori del passato, generalmente in quel bianco e nero dove si respira quell’ossigeno cinematografico oggi sempre più carente.

– E ti fai vivo solo ora?

– Non farmi la predica. Venezia, intesa come il Festival del Lido, è una specie di percorso psicanalitico, naturalmente a ostacoli, che dopo il simbolico attraversamento dell’acqua (la laguna che separa il Lido da Venezia, già di suo legata alla terraferma dal cordone ombelicale del Ponte della Libertà), ti conduce a immergerti nella placenta alternativa delle sale buie per vivere le vite degli altri, le storie di tutti quegli sconosciuti che incontrerai sullo schermo, e che, quale più quale meno, entreranno nella tua vita per sempre, qualcuno per sbiadire frettolosamente nel ricordo, qualcun altro per restarvi a lungo, quando non per sempre, né più e né meno come le persone reali. Tutto questo in quantità maggiore e concentrata rispetto al prosaico quotidiano cittadino della stagione autunno-inverno. Uno shock per la mente, quest’anno ulteriormente appesantita da una calura insolita che non accenna a calare, appena appena mitigata dal gelo polare delle proiezioni. Insomma, il carico emotivo di questa massiccia vagonata di fiction rallenta, insieme all’afa, di parecchio la “voja ‘e fa”. Mi perdonerai quindi se soltanto ora riesco a inviarti i consueti dispacci.

– Non credere che non si crepi dal caldo anche quaggiù. Io ormai mi sono fidanzato ufficialmente con il condizionatore: sto addirittura pensando di inserirlo nel testamento… Ma dimmi! Avrai visto un sacco di roba, a tra un paio di giorni verranno assegnati i leoni.

– Sarò per questo più breve del solito, ma non meno esaustivo, spero. Andiamo con ordine. Film di apertura, “Beetlejuice, Beetlejuice” di un Tim Burton ormai definitivamente incartato nella paccottiglia del suo abusato arsenale gotico. Un film zeppo di star ma senza anima alcuna, e non solo perché Monica Bellucci, la sola che ti resti in memoria, fa una strega cattiva che la succhia via a chiunque incontri, compreso Danny De Vito (rivisto con piacere, anche se in una fugace comparsata). Un titolo decisamente inadeguato per aprire un festival della levatura di Venezia, ma si vede che questo passava ed esigeva il convento, per ripopolare di volti amati ed internazionali il red carpet rimasto all’asciutto lo scorso anno per colpa degli scioperi di Hollywood. Mediocre anche l’attesissimo “Maria” del “madonnaro” Pablo Larraín, che conclude il suo sacro trittico di Golden Ladies (a meno che in futuro non minacci di occuparsi di altre icone tipo la Dietrich) dopo “Jackie” e “Spencer”, entrambi presentati qui al Lido negli anni scorsi: stavolta è “la” Maria per eccellenza, almeno per i fanatici della Lirica, ovvero “la” Callas. Se il film su Jacqueline Kennedy Onassis era un fiammeggiante capolavoro, quello su Lady Diana non risultava completamente riuscito, ma aveva dei pregi. Questo è una discreta toppa. In conferenza stampa Larraín ha affermato di “adorare la Callas”, ma nel corso della visione persiste il dubbio che della più grande voce lirica di tutti i tempi egli possieda solo una nozionistica infarinatura. L’intero film, che illustra l’ultima settimana di vita di quella meravigliosa creatura nella sua casa di Parigi, soffre di una monocordia che è l’esatto contrario di un melodramma, dove a un’aria lenta, languida e cantabile segue quasi irrimediabilmente una cabaletta irruenta e nervosa. L’errore più grave è quello di mostrare sui titoli di coda (inspiegabilmente commentati dal verdiano “Va’ pensiero”) le immagini di repertorio della vera Maria, artista in grado di impersonare l’intero ventaglio espressivo delle eroine dell’Opera, dall’eros carnale e mediterraneo di Carmen alla bambolesca giapponesità di Cio-Cio-San, dal matronale incedere di Norma o la marmorizzata statura tragica di Medea assassina dei propri figli, alla civetteria di Rosina o di Violetta Valéry. Per errata impostazione registica, la pur bravissima Angelina Jolie agisce nel film come se fosse, di tutti questi tipi femminili, soltanto Norma: una mesta e seriosa sacerdotessa che usa i medesimi toni sia nel bacchettare il maggiordomo sia che si rivolga agli affezionatissimi barboncini. Di “la Callas”, per come la conosceva chi ha avuto la fortuna di ascoltarla dal vivo e frequentarla in privato, c’è molto poco nel volto e nel corpo della Jolie, che guidata da altri avrebbe senza dubbio, ne sono certo, offerto un’interpretazione più variata. Non penso, insomma, che film del genere possano avvicinare più pubblico alla Lirica, come auspicato da Larraín, perché l’Opera al cinema è una brutta bestia: tocca dare ragione a Zeffirelli il quale sosteneva che a un regista cinematografico potrebbe riuscire una riduzione filmica di un’Opera soltanto se il Melodramma appartenesse al suo bagaglio di sapere fin dall’infanzia… Ma il grande assente è anche, e forse soprattutto, il cinema di Larraín, qui clamorosamente latitante. Pochissimi graffi, rarissime le impennate (bello il coro degli zingari del “Trovatore” sotto la Tour Eiffel), insomma: un compitino su commissione, e nulla più. Peccato.

 

Maria, di Pablo Larrain
Maria, di Pablo Larrain

– Peccato davvero. Altre delusioni?

– Eccome. Ma poi (per oggi) smetto, e per il prossimo bollettino mi riservo le belle sorprese. Chiudo velocemente liquidando un titolo indegno di un concorso, specialmente qui alla Mostra, dove tra gli intenti del postulato del concorso ufficiale rimane pur sempre quello di premiare con un leone un cinema innovativo e orientato verso frontiere nuove della tecnologia e del linguaggio. Sto parlando di “Babygirl” di Halina Reijn, che viene dall’Olanda, ma il film batte bandiera USA, come il suo precedente horror “Bodies Bodies Bodies”. Tanto corpo anche qui, specialmente quello di una particolarmente disinibita Nicole Kidman, che più invecchia e più ci tiene a far vedere che le sta riuscendo piuttosto bene. Peccato che il film sembri un filmetto anni ’90 nemmeno tanto più audace e caliente, e che la rappresentazione di un erotismo che si dovrebbe presumere scatenato sfiori spesso il ridicolo, sguazzando nella banalità di un voyerismo velleitariamente bollente che può forse fare impressione nell’America neo-puritana del woke e del MeToo, e non certo nella cara vecchia Europa che nonostante tutto ancora resiste saldamente al timone di un eros sottile, elegante, o autenticamente disturbante… Per ora è tutto. La prossima volta ti tirerò fuori i pezzi forti, che per fortuna non sono mancati. Ciao!

( 1.Continua)

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