L’arte, come scriveva Francis Picabia, è “il culto dell’errore”. Nel difetto, nell’opera abbandonata, nel lavoro fallito, si apre un nuovo territorio di possibilità, altrimenti sconosciute. Ne parliamo con Emiliano Coletta in questa trentasettesima puntata di Progetto (s)cultura.
Quando e come hai iniziato a dedicarti alla scultura?
Ho iniziato in concreto durante il periodo dell’Accademia, dove una rabbia ancora irrisolta si è impossessata di me. Successivamente le prime mostre, il lavoro di assistente presso altri artisti, il laboratorio condiviso con amici e le committenze di arti applicate mi hanno avvicinato ad un modo di lavorare piuttosto autonomo nel mondo dell’arte.
Che studi hai fatto? Ricordi qualche maestro in particolare?
I miei studi sono stati in linea con il percorso artistico: Liceo Artistico e Accademia. La rabbia di cui parlavo è proprio il frutto del rapporto con “cattivi maestri”. È a causa loro che l’accezione reverenziale con cui si usa in Italia il termine maestro mi risulta insopportabile. Un professore, per converso, che mi sento di ringraziare, è Francesco Di Mastropaolo: durante l’ultimo anno di Liceo, ha saputo trasmettermi coinvolgimento e passione, rompendo quell’atmosfera di incertezza e pigrizia da cui provenivo. A lui devo la scoperta di Arturo Martini e quindi l’inizio del mio interesse per la Scultura.
Se invece si guarda ai tuoi modelli, il primo nome che mi viene in mente è Kiefer; seguono Leoncillo e Cerone.
Mi sorprende e mi imbarazza che come primo artista tu nomini Kiefer; come hai fatto? Lui è un monumento vivente e, per me, un’ispirazione continua. Quest’anno, con un gruppo di studenti dell’Accademia, abbiamo approfondito la sua poetica e il suo lavoro, che reputo fondamentale come approccio iniziale per chi ha 18/19 anni e deve sapere sognare. Nei miei occhi ho sempre la sua mostra a Palazzo Ducale a Venezia del 2022 e devo dirti anche che il film Anselm di Wim Wenders l’ho trovato meraviglioso. Per me Kiefer è come se vivesse costantemente nelle ore più silenziose, scavando nella notte e separandosi dal tempo. Leoncillo è un esempio di che cosa si cela dietro la scultura, un partigiano antifascista, un’artista che ha rappresentato il suo tempo. Giacinto [Cerone, N.d.R.] è stato un tuono: ha lasciato un segno molto profondo nell’ambiente artistico romano. La prima volta che lo incontrai fu al Liceo, dove prese una supplenza, e mi trovai coinvolto in una battaglia di gesso; qui vidi come Giacinto aggrediva la materia. Teorizzava l’inquietudine e, attraverso l’azione, si sforzava di battere la velocità del pensiero; questo, s’intende, vale per tutti i materiali che egli ha utilizzato: gesso, legno, argilla e pietra. Un grandissimo poeta.
Rispetto a questi artisti, il tuo approccio alla materia è però meno agonico e più ironico. Mi riferisco, senza andare lontano, alle recenti Bagattelle.
Di ironico nelle Bagattelle c’è solo il titolo, che si riferisce al mio non trovare mai il tempo necessario! Le Bagattelle sono una serie di opere basate sulla restituzione, in forma scultorea, di scarti di argilla. La serie è infatti composta da “amabili resti”, conservati e rimpastati, di lavori mal riusciti o non portati a compimento, realizzati da miei studenti. Il significato stesso di Bagattella, ovvero cosa di poco conto, testimonia la malinconia e il silenzio di una scultura che non restituisce più la vita.
Quali materiali prediligi?
Non amo molto la poetica dei materiali: sono i materiali a prestarsi all’idea. Ti faccio un esempio: lo scorso anno, insieme ad Amedeo Longo, siamo stati invitati dai giovani curatori del KH Lab di Roma a realizzare una mostra. In quel caso ho esposto un cartello stradale, aggiungendo semplicemente una pecetta adesiva, che cambia completamente il significato del cartello. Il cartello era un vecchio divieto di attraversamento pedonale, dismesso negli anni ‘50; il pittogramma raffigura un padre che tiene per mano la figlia e i due sono fortemente caratterizzati dagli abiti. La pecetta adesiva applicata sul collo dell’uomo stravolge il significato di “padre” e lo trasforma in un messaggio contro la pedofilia in ambito ecclesiastico.
Potresti descrivere, per quanto riguarda terrecotte e ceramiche, il tuo modus operandi?
Lavoro sull’impronta della fisicità trasmessa alla terra che trema. Vibra attraverso gesti violenti, a volte plasmati, a volte ottenuti lanciando l’argilla ridotta a fango; cerco di forzare l’argilla al punto di rottura, non ottenendo sempre il risultato sperato; anche per questo alcune opere in cottura si rompono ed è il motivo per cui la tiratura annuale non supera mai le 10 unità.
Quanto conta per te l’uso del colore?
La ceramica ha questa grandissima componente cromatica che la rende unica anche a livello di peso visivo. Uso molto gli smalti, faccio una grande ricerca cromatica, mescolando anche i colori per realizzare dei pezzi unici, a volte irripetibili se non segno le percentuali esatte. Le Bagattelle senza colore risulterebbero nude. Il monocromo è l’approccio iniziale ma, quando comincio ad elaborare il processo cromatico, oltre a miscelare aggiungo elementi cromatici diversi o addirittura lustri, sempre in un modo un po’ scorretto; non mi definisco ceramista, mi piace sperimentare le gamme cromatiche. Ultimamente sto utilizzando gli smalti Matt; trovo che ci sia più morbidezza nel colore, con sfumature che quasi per eccesso tendono ad apparire bruciate.
Guardando alla tua ricerca, lo ha scritto Massimo Mazzone, terrecotte e ceramiche “sembrano essere superate da altre indagini, come le azioni collettive, pensiamo a quanto realizzato con il gruppo com.plot S.Y.S.tem o alle sue numerose collaborazioni in ambito teatrale e performativo, dai video più volte esposti alla Biennale di Venezia, alla Triennale di Milano e in numerose occasioni sia in Italia che all’estero, dalle fotografie, o dalle installazioni”. Di recente ti sei pure dedicato alla pittura. Ti senti più un artista a tutto tondo o semplicemente uno scultore?
La mia ricerca inizialmente ha cercato di spaziare in più direzioni possibili, questo perché ho sempre lavorato in varie realtà: ho avuto sempre la necessità di collaborare e imparare, guardare ad una visione più ampia. Con Massimo Mazzone e il gruppo Complot System abbiamo lavorato con l’architetto Massimiliano Fuksas e contemporaneamente ero assistente dell’artista Maurizio Mochetti. Successivamente ho iniziato a fare il decoratore scenografo “acrobatico” per eventi Olimpici o piuttosto concerti, allestimenti di mostre, come quella stupenda di Carlos Amorales al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2010. Sono un testimone del lavoro flessibile, ma al tempo stesso rappresento tutta la fragilità di questo contesto.
La pittura è una mia grande passione; amo come il suo processo lento si cristallizza, ma se penso a Kiefer, Baselitz o Cy Twombly, è vero esattamente il contrario. Più che pittura ho sempre disegnato, usando tecniche abbastanza improvvisate in base a quello che avevo sottomano. Per chiudere la tua domanda, come ho cercato di spiegare, mi definirei più artista, anche se l’insegnamento ora è una parte importante della mia vita.
Qual è – ammesso che nella tua pratica sia possibile sbagliare – il tuo rapporto con l’errore?
Francis Picabia scriveva che “l’arte è il culto dell’errore”. Nell’errore trovo una certa logica; quindi nel mio caso dall’opera abbandonata, dal lavoro fallito, si apre sempre un nuovo territorio di possibilità, altrimenti sconosciute.
Vivi e lavori a Roma. L’ambiente ti stimola o preferiresti stare altrove?
Roma è un ambiente che sa essere stimolante, ma allo stesso tempo molto piccolo. Io ho costruito tutto a Roma, e per vari motivi sia lavorativi che familiari, non mi è possibile allontanarmi, anche se sta crescendo in me il desiderio di vivere in un contesto più isolato e nella natura. In questo momento sono le mie sculture che stanno uscendo da Roma, si stanno indirizzando al nord verso Milano, Monaco di Baviera… Le ultime due a breve saranno a Londra. Mi sento di dirti che per me Roma, in questo momento, è una gabbia per uccelli circondata da cani rabbiosi.
Un posticino tranquillo! Insegni all’Accademia di Roma e alla Rufa. Cosa suggeriresti ai tuoi studenti che volessero seguire le tue orme?
Con i miei studenti cerco di creare uno scambio che duri il più possibile nel tempo, consiglio loro di rischiare e di inventarsi il loro modo di stare nel mondo dell’arte. Oggi ci sono molte opportunità tra bandi, concorsi ed esposizioni, però non vedo in questo momento un grande futuro per l’arte in Italia. Quindi il mio consiglio è costruirsi un missile e andar a cercare lavoro su un altro pianeta.
Due parole sul mercato, e sul tuo rapporto col pubblico e la committenza.
Io mi considero un’artista indipendente, non ho mai lavorato per gallerie, quindi ho cercato sempre situazioni alternative. Situazioni che ti mettono a contatto anche con un pubblico diverso, dove il dialogo e il confronto generano relazioni. L’arte deve sempre comunicare. Oltre alle mostre, in questo momento sto trovando nuovi canali: quest’anno ho partecipato alla Milano Design Week e a tutt’oggi quattro Bagattelle sono esposte presso lo show room dell’azienda Henge a Milano. Un ambiente molto diverso da quello dell’arte, più concreto e meno reverenziale. Continuo a cercare qualcosa che sia sempre diverso. In fondo cambiare sempre è la mia storia.
Che cosa pensi della scultura italiana, è viva o morta?
Nel ‘900 Arturo Martini dichiarò la fine della statuaria celebrativa e il suo messaggio malinconico ha germogliato profondamente nella scultura italiana. Oggi la scultura (così come l’arte in senso ampio) è libera e pensa attraverso il vedere, cogliendo quello che potrebbe scomparire, afferrando l’epoca con tutte le sue crepe e fessure.
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Insieme al pittore Nicolas Pallavicini, stiamo organizzando per giugno 2025 una mostra a Monaco di Baviera; una mostra di pura pittura e scultura fatta di colori, linee, materia e forme astratte. Per questa mostra sto ragionando in modo diverso: voglio dedicare le sculture ad artisti che hanno vissuto a Monaco nei primi del ‘900, quando Monaco è stata la culla dell’avanguardia. Ti faccio i primi due nomi: Hugo Ball e Alfred Kubin.