Niki de Saint Phalle e Jean Tinguely, compagni d’arte e nella vita, sono ancora legati da un’affinità nell’anima e, insieme, con due imperdibili mostre a Milano, dove sembrano continuare la loro grande storia d’amore. Entrambi si oppongono alla visione nichilista di Marcel Duchamp, con sculture ottimiste, costruttive, monumentali e memorabili
Della prima abbiamo già scritto; raccontiamo in questo articolo la più importante retrospettiva italiana, dopo la scomparsa di Jean Tinguely (Friburgo, Svizzera 1925 – Berna 1991), allestita nelle Navate di Pirelli HangarBicocca a Milano, a cura di Camille Morineau, Lucia Pesapane, Vincent Todolì e Fiammetta Griccioli. Organizzata da Pirelli HangarBicocca in collaborazione con il Museo Tinguely di Basilea, intende celebrare i cento anni dalla nascita dell’artista. In questa ideale cornice ci sorprende la messa in scena ludica della parodia della macchina, con opere eseguite dagli anni Cinquanta ai Novanta, in cui la tridimensionalità di un realismo fisico eccentrico, tra prelievo, dissacrazione e ricostruzione, l’accumulo e il recupero di rottami, complice il rumore e il movimento, infrange il canone classico della Bellezza e della scultura tradizionale (fino al 2 febbraio 2025).
Macchine, suono e movimento sono le protagoniste di un improbabile Lunapark sfrontato contro l’ipercosumo, che nell’officina Pirelli trova il contesto ideale in cui tutto è insensato e fa rumore la critica alla civiltà moderna nella fabbrica, luogo di lavoro e alienazione; una parodia per la prima volta affrontata nel film Tempi Moderni (1936) di Charlie Chaplin.
Le macchine inutili in ferro, acciaio e lamiere, destinate a incepparsi di Tinguely, come gli assemblaggi di bobine, catene, ruote e altri materiali di scarto meccanici, uniti a frammenti domestici (scolapasta, lampadine, pupazzi), ossa e pellicce di animali e tanto altro ancora, rappresentano la critica al consumismo, celebrato invece dalla Pop Art, secondo la visione dell’artista svizzero cresciuto nella patria del Dadaismo (1916).
Nella cornice di una ex officina meccanica, questa mostra è concepita come una scenografia sonora e visiva, con 40 opere (per metà provenienti dal museo di Basilea dedicato all’artista svizzero), che occupano la quasi totalità dei 5mila metri quadrati delle Navate. C’è una fusione totale tra le sculture cinetiche e il contenitore, che si attivano una sola volta ogni venti minuti, per sorprendere il visitatore con coreografie meccaniche, visioni eccentriche ammantate dal buio. Dopo quella a Palazzo Grassi del 1987 a Venezia, questa mostra è concepita in dialogo con quella di Niki de Saint Phalle al Mudec e in rapporto con Milano. È la più esauriente retrospettiva italiana che parte dai lavori degli anni Cinquanta, ancora influenzati dai Mobiles di Alexander Calder, leggeri come l’aria e realizzati in filo di ferro, fino alle opere cinetiche monumentali in cui, insieme a cacofoniche macchine sovrapposte a opere musicali e luminose degli anni Novanta. Ciascuna opera viene attivata per un periodo specifico, seguendo una scenografia prestabilita, in cui, tra ruote in movimento e rumori improvvisi, le sculture avanguardiste di Tinguely sono all’insegna dello sconfinamento tra i generi.
Prestate attenzione a tre lavori in particolare: Sculpture méta-mécanique automobile (1954), Méda – Herbien (1955) e Tricycle (1954), che rappresentano il corpus più storico presentato in questa retrospettiva, opere influenzate dalle sperimentazioni dell’astrattismo geometrico dei primi del Novecento, realizzate in filo metallico. Tinguely a Parigi nel 1954 tiene la sua prima mostra personale alla Galerie Arnaud, comprensiva di un corpus di sculture in filo metallico note con il nome di Méta-mécaniques, composte con piccoli motori elettrici che facilitano il movimento di alcune parti delle sculture. Il prefisso di derivazione greca “méta” indica qualcosa di oltre, elemento “trascendente” introdotto dalle sue sculture stranianti, come si vede in Méta –Maxi (1986) in mostra al Pirelli HangarBicocca.
Ipnotizzano bambini di tutte le età le sue macchine cinetiche inutili, affascinanti perché si muovono senza nessuno scopo produttivo e introducono suono e movimento nell’arte. Nel dicembre del 1954, l’artista designer italiano Bruno Munari (1907-1998), interessato all’Arte cinetica programmata, invita Jean Tinguely a presentare Tricycle (1954), che ricorda la forma di un triciclo realizzata con ingranaggi di filo metallico nello Studio d’Architettura B24 di Milano, dove torna con Niki de Saint Phalle nel 1970, in occasione della celebrazione del decimo anniversario del movimento Nouveau Réalisme (1960), fondato da Pierre Restany (1930-2003). È l’anno in cui Tinguely presenta in Piazza Duomo La Vittoria (1970), chiamata dall’artista anche Il suicidio della macchina, spettacolare performance del monumento fallico in legno, di oltre dieci metri, che il 28 novembre lancia petardi in cielo per quasi mezz’ora, con il sottofondo della canzone O Sole mio, fino ad autodistruggersi: una vera e propria cerimonia funebre per il movimento, che si svolge tra il 27 e il 29 novembre, alle nove di sera, ricordata da materiali d’archivio e disegni esposti nella Lab room di Pirelli HangarBicocca.
Il percorso espositivo si apre con Cercle et Carré (1981) e Méta-Maxi (1986), scenografiche sculture realizzate assemblando ruote, cinghie, motori elettrici, componenti meccanici, personaggi in plastica e peluche che sbucano da ingranaggi, allontanando la macchina dall’idea di perfezione, che rimandano al concetto di catena di montaggio, che nell’ex officina Pirelli assume altri significati preganti contro il funzionalismo modernista. Sarete fagocitati anche dalla scultura monumentale retroilluminata, composta da una serie di ruote di diverse dimensioni azionate da cinghie, caratterizzate dalle superfici monocrome nere, intitolata Requiem pour une feuille morte (1967), ideata per il Padiglione svizzero all’Esposizione Universale di Montreal, ispirata all’esperienza dell’artista come scenografo per il sipario meccanico del balletto L’Eloge de la Folie del celebre coreografo francese Roland Petit (1924-2011), inscenato a Parigi l’anno precedente. Dopo il successo di Homage to New York (1960), l’installazione di 7 metri di lunghezza e 8 metri di altezza, composta da circa 80 biciclette, oltre a tricicli, ruote, una vasca da bagno, campane, clacson, bottiglie, lattine e vari motori, un marchingegno assurdo che si distrugge in 27 secondi, Tinguely, sempre più spettacolare, unisce l’arte alla vita, trovando nel funzionamento della macchina una intrinseca poesia.
Tra le altre opere in mostra, fate attenzione alle prime “sculture lampada” prodotte dal 1972, in cui il movimento è secondario rispetto alla funzione primaria dell’illuminazione, come si vede in Lampe No.2 (1972), che include, oltre alle lampadine colorate, un uccello imbalsamato e cavi elettrici. L’artista, negli anni Ottanta, installa anche lampade a parete e a soffitto, ampliando le dimensioni per decorare bar e caffè, come Lampe (1990). Negli stessi anni, Tinguely crea anche lampade di dimensioni monumentali; in mostra sorprendono L’Odalisque (1989) e Luminator (1991), opere realizzate con assemblaggi di lampade create dall’artista.
La collaborazione tra Jean Tinguely e Niki de Saint Phalle, iniziata nel 1967, culmina nella scultura composta da un mosaico di pezzi di specchi, Le Champignon magique (1989), che evoca la forma di un fungo allucinogeno, con effetti caleidoscopici, diviso in due sezioni distinte: da un lato c’è Nana, dea della fertilità dalle forme generose, caratteristica di Niki; dall’altro, si vede un uomo con sesso eretto, imbrigliato tra le piante. Questa scultura a quattro mani rappresenta l’unione tra il maschile e il femminile, e il cappello del fungo, composto da Tinguely, è realizzato con parti metalliche arrugginite, tra cui spicca un pezzo della carrozzeria di un’automobile giocattolo per bambini.
Le Machines Inutiles e le installazioni assurde di Tinguely, realizzate con assemblaggi di oggetti trovati, si contraddistinguono per cacofonici suoni e movimenti inattesi, che sorprendono critica e pubblico. Con giocosa ilarità, ci mostrano un nuovo approccio alla realtà, mescolando oggetti quotidiani, scarti, rifiuti e rottami della società dei consumi, evocanti figure totemiche ancestrali, grottesche allegorie che vanno oltre la prassi di saldare insieme materiali di scarto in maniera imperfetta, in cui tutto è gioco e poesia.