Dagli esordi negli anni ’60 ad oggi, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia ripercorre la carriera di Marina Apollonio (n. 1940), tra le maggiori esponenti dell’Arte ottica (Op) e cinetica internazionale. Dal 12 ottobre 2024 al 3 marzo 2025.
Lungo la storia dell’arte si sono presto definiti dei generi. Classificare e codificare, lo sappiamo, fa comodo a tutti. A chi crea, a chi guarda, a chi compra, a chi vende. Il paesaggio, il ritratto, la natura morta: giusto per citare alcuni dei più celebri. Temi dati, argomenti scelti che facilitano l’interpretazione, guidano la scelta, facilitano la proposta. E se queste possono essere considerate scorciatoie, lontano da una pratica pura dell’arte, quando guardiamo alla questione dal punto di vista dell’artista, tutto cambia. Il genere toglie l’onere della scelta del tema, ma lascia raddoppiato l’impegno di colmare la creatività data con una grossa iniezione del proprio stile personale. Una prova non facile, che riesce con successo solo ai migliori artisti. Di tutte le epoche, beninteso. Proviamo allora a immaginare cosa significhi tradurre questo sforzo su un’unità minima, un dato esile, quasi paradossale nella sua essenzialità. La forma in questione è il cerchio e l’artista che per un vita l’ha indagato è Marina Apollonio.
“Ogni mia ricerca plastica vuole essere un’indagine sulle possibilità fenomeniche di forme e strutture elementari. La forma elementare ha in sé l’astrazione totale in quanto è costituita da un programma matematico. Su questa base l’azione si svolge con assoluto rigore in un rapporto diretto tra intuizione e verifica: intuizione a livello ottico e verifica su sistema matematico. Scelta una forma primaria, quale ad esempio il cerchio, ne studio le possibilità strutturali per renderla attiva cercando il massimo risultato con la massima economia”, scrive l’artista nel 1966, in occasione della sua prima personale al Centro Arte Viva Feltrinelli di Trieste. Sottolineando dunque la centralità del cerchio, ma allargando l’analisi anche ad altre forme geometriche, e soprattutto dichiarando una natura ibrida della sua pratica.
Marina Apollonio, per l’appunto, riassume nei suoi lavori un complesso studio dondolante tra arte e scienza, calibrato su una seduzione visiva ricercata, intessuta nelle trame dell’inganno ottico e del gioco percettivo, che si esalta in sede di fruizione, con l’osservatore chiamato a spingere il proprio impegno oltre lo sforzo visivo, prestandosi a un coinvolgimento più ampio dei sensi. Caleidoscopici pattern, battiti effimeri, immagini pulsanti, illusioni paradossali, visioni distorte dello spazio. Queste sono solo alcuni dei riconoscibili segni di un alfabeto rigoroso ma allo stesso tempo imprevedibile. Linguaggio in cui cerca di mettere ordine la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, che in una perfetta coincidenze di storie che si allacciano, presenta la prima grande retrospettiva dedicata ad Apollonio.
La vicenda artistica dell’autrice inizia infatti proprio a Venezia, quando a 8 anni, nel 1948, si trasferisce nella città lagunare per seguire il padre, Umbro Apollonio, critico d’arte, scrittore e direttore dell’Archivio storico della Biennale di Venezia dal 1949 al 1972. Qui cresce in un contesto intellettuale, qui nel 1962, inizia la sua carriera artistica, contro il contro il parere del padre. Eppure, la sua sensibilità si inserisce alla perfezione nel contesto culturale del tempo, segnato dalla ricerca sulla percezione. Sempre a Venezia, nel 1968, dopo aver visitato la personale di Apollonio alla Galleria Paolo Barozzi, Peggy Guggenheim le commissiona Rilievo n. 505, tutt’oggi parte della collezione.
Sono i momenti seminali dell’Arte programmata e cinetica. Pur senza aderire a nessun gruppo, Apollonio è vicina a Nuova tendenza 3, dove conosce Dadamaino, con cui rimarrà sempre amica; al Gruppo N di Padova, al Gruppo T di Milano, al Gruppo Zero di Düsseldorf. Con loro condivide l’idea di un’arte anaffettiva, anarrativa, astratta, impermeabile alla figura, rivolta ai sensi ma insensibile al cuore, tutta volta al cervello e agli ingranaggi meccanici che permettono la percezione. E soprattutto come su questi ingranaggi è possibile intervenire. Quante sono, per esempio, le possibilità rappresentative del cerchio? Quanti effetti ottici è possibile ottenere da una semplice linea che si chiude su se stessa, perdendo il suo inizio e la sua fine? Può essere reso, in qualche modo, un genere artistico a sé stante? Forse per questo servirebbe che qualcun altro si cimentasse nella sua rappresentazione, esplorandola verticalmente. Però, in attesa che accada, Apollonio è di certo l’autrice di riferimento sul tema specifico, colei alla quale si guarderà se mai arriverà un erede in tal senso.
A partire dalle prime sperimentazioni, quelle Dinamiche circolari iniziate nel 1968. Si tratta di oggetti ora statici ora mobili, che esplorano in differenti soluzioni le possibilità di attivazione del cerchio. Sempre agli anni Sessanta e Settanta risalgono i Rilievi, strutture metalliche che catturano e scompongono l’ambiente circostante, che si immerge nella sua superficie specchiante e viene restituito cangiante e imprevedibile. Se qui viene mantenuta l’impostazione quadro, pur al limite della definizione, in altre soluzioni il cerchio viene moltiplicato sulla base di una scultura in metallo.
Si torna alla pittura con le Gradazioni, dove i cerchi concentrici, per disposizione e variazione cromatica, paiono muoversi, contraddicendo la loro apparente natura statica. E poi i Rilievi a diffusione cromatica, pitture-rilievo dei primi anni Settanta, monocromi bianchi i cui cerchi, intagliati nel supporto di plastica e dipinti nella scanalatura, prendono vita con il movimento dello spettatore. Movimento a uscire che si sublima nelle Espansioni, pitture di piccolo formato dello stesso periodo: esplosioni cromatiche dalle linee di colore concentriche.
Infine, a riprova dell’ampiezza e della longevità della parabola di Apollonio, chiudono la mostra due nuovi progetti site-specific: l’ambiente Entrare nell’opera, realizzato dall’artista appositamente per la mostra, e l’ugualmente inedita istallazione musicale Endings, nata dalla recente collaborazione con il compositore Guglielmo Bottin che prende il via dalla spirale di Fusione circolare del 2016.