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Art Basel Paris Week 2024, facciamo il punto. Diecimila battute su Parigi, il pudding e i pavoni sui tavoli

Parigi mangia pudding sulle rive della Senna. Aspettando dalla Manica il cadavere di Londra, danza il suo can-can a Matignon sul requiem di Mayfair. La corrente sembra questa, l’energia -almeno in Europa- ha un nuovo polo. Negativo per la City che grazie al suo ben radicato ecosistema artistico si tiene ancora a galla (comunque con un 17% di giro di mercato globale, seppur Brexit, tasse, isolamento, Non-Dom ne logorino le fondamenta). Positivo per la capitale francese, che vive nuovi inni alla gioia come non se ne vedeva prima del 1945, sorretta dai suoi Pinault, Arnault, Dassault, istituzioni, fondazioni, governi, leggi, interessi che vogliono tornare alla grandeur nazionalista e ci stanno riuscendo bene (vale un 7% mondiale, ma dati ArtTactic 2024 ha già segnato un +12% nel primo semestre rispetto all’anno scorso). Pinault, che ha Christie’s, fa un’asta da mille e una evening con 50,9 milioni di euro di una Avant-Garde(s) + Thinking Italian coi fiocchi, tagli e achrome (e nel complesso della settimana assesta oltre 90 milioni). Mai sazio, apre la mostra più importante sull’Arte Povera alla Bourse de Commerce, che si riflette sui vetri del Grand Palais (Art Basel) prima di rifrangersi sul mercato intero. Drahi, sponda Sotheby’s (sempre in partnership with Celine), apre la sede nuova (3.200 mq su 5 piani con pure una cantina di vini al -1) con un’asta Surrealista letteralmente da sogno (e da guanti bianchi, tutto venduto per 23 milioni di euro, che salgono a 59 nel round settimanale) preceduta dal più bel party in tutta la Basel Paris Week in tema psicopatologia onirica e cangiante (firmato Laila Gohar) con piramidi di gamberi, pavoni sui tavoli, cigni volanti, pareti di cioccolato, mele magrittiane giganti e rose di fuoco meditative, come quella venduta di Dalì a 4 milioni venerdì 18, quattro volte la stima, ma cento volte più grandi. Arnault, dal canto suo, porta la crema alle labbra profonde dell’America patinata. Serate di gala (martedì 15) o meno (senza la moglie, Dalì) aprendo gli occhi dell’Europa a uno dei più bravi e sottovalutati (almeno qua da noi) artisti pop che ci siano mai stati: Tom Wesselmann. E se ne riempie la bocca la fiera, con almeno 3 pezzi storici da 5-6 milioni l’uno (in attesa di un telefonato record d’asta magari già a novembre a New York, visto che il top price è di 10,7 milioni e risale a un’altra era geologica, il 2008). Così fa Picasso (con il Museo al Marais) con i primi auspici di Pollock d’avanguardia che gioca a fare Pablo, e così fa Parigi tutta, quindi la Francia intera, riva Pompidou, prima della chiusura rigenerativa (dal 2025 al 2030), calando il poker con una delle mostre più complete (600 pezzi) mai realizzate sul Movimento Surrealista nei suoi 100 anni di celebrazioni e onori (la folla e la fila sono in processione perpetua dentro e fuori il Beaubourg). Ci sarebbero anche i 150 anni dell’Impressionismo, omaggiati con una superba rassegna su Caillebotte all’Orsay (e i capolavori da manuale provenienti da Los Angeles, Boston, Minneapolis e Chicago), e il mercante Berggruen all’Orangerie, Barbara Chase-Riboud (da Filadelfia) tra Guimet e Tokyo, Martine Syms (da Los Angeles) a Lafayette Anticipations e soprattutto Olga de Amaral in pieno Effetto Biennale, protagonista dagli spasmi lagunari veneziani alla fiera in “sold-out” da Lisson (le tipiche Alchimie in gesso, lino e foglia d’oro, da 500 a 900 mila euro) fino alla magia tessile che riannoda i fili del suo lavoro alla Fondation Cartier (che sta ultimando i lavori di una seconda sede di zecca, a fianco al Louvre, firmata Jean Nouvel, in Place du Palais-Royal, entro il 2025). Una galassia pubblico-privata che costella la città, accompagnata da fiere (nuove o rinnovate, ottime come Offscreen by Dior, Paris Internationale, Thema e Design Miami, meno buone come la prima di Nada, AKAA, Asia Now, Modern Art Fair), gallerie e quartieri in festa per l’occasione (Matignon Saint-Honoré ha dato il via alle danze lunedì 14 con un vernissages collectifs di 31 galeries sponsorizzato da Ruinart) e un Public Program della regina Basel che dalle Tuileries di una volta si dissemina per parc, palais e place come collante di ogni sede baciata da una vocazione espansa dell’arte che si brami faccia parte del “lusso”. Vedi alla voce Miu Miu che sponsorizza il “Programma”, e i marchi Vuitton e Guerlain che entrano in pianta stabile nell’eden di Art Basel, sulle balconate dai riccioli di ferro salvia del Grand Palais, tirato a lucido dai 466 milioni di euro delle ristrutturazioni durate quasi cinque anni (2020-2024), spacchettato per le Olimpiadi estive. Sulla stessa scia, ma a piano terra, torna la seconda edizione dell’Art Basel Shop, curata da Sarah Andelman: abbigliamento e accessori AB by Artist di Claire Fontaine; magazine di colore “lifestyle”, collaborazioni con Uniqlo, Lafayette, Parley for the Oceans. Parterre de Roi, o de Reine che incipriano Art Basel Paris che fu Paris+. La foire si è fatta grande (195 espositori, Miami, Basilea e Hong Kong ne hanno quasi 300) tornando al Palais che fu di FIAC dal 1974 alla pandemia (dal 18 al 20 ottobre, anteprime il 16 e il 17, sempre diretta di Clémente Delépine affiancato da De Bellis). Mercoledì 16 alle ore 10 preview fino alle 20; dalle 10 alle 13 follia di folla da non trattenere nelle mutande gli entusiasmi (ma controproducente per i veri collezionisti, l’assalto fa scappare); cielo azzurro già da lunedì e temperatura fissa sui 25 gradi; scintillii di luce dallo scheletro di acciaio nouveau dominato dal vetro dritti a ritagliare in inserti luminosi gli stand; foto di rito del Grand “teatro” dalle passerelle che corrono sul perimetro della struttura, sedi degli Emergent, delle curate Premise e della Ristorazione, capitolo buvette quasi totalmente da dimenticare, non per i panini a 16 euro e mezzo litro d’acqua a 5 euro ma per il livello qualitativo da Musée des Egouts. Non costa nulla, dall’alto delle balconate, la belle vue panoramica sulla piana dei booth: pare un incastro di tessere di tetris lungo una direttrice che taglia a metà la “cartina” fieristica. Non è Basilea, ma il livello è alto e a tratti altissimo: Malevich del 1915, dalla collezione dello Stedelijk di Amsterdam, è il pezzo copertina (comprato nel 2015 per 21,4 milioni di sterline/33,6 milioni di dollari e venduto subito a una cifra non dichiarata da Hauser&Wirth, 40 milioni?), assieme agli amanti de La fenêtre ouverte di Picasso del 1929 (battuto alla ridicola cifra di 16,3 milioni di sterline nel 2022) portata da Nahmad. Ancora Hauser con un Ragno sulla parete (edizione di 6+1 del 1995) della Bourgeois acquistato per la cifra, questa volta ammessa, di 20 milioni. I “soliti” capolavori da museo da decine di milioni di Landau (Kandinsky, Magritte, Jawlensky) e come terza vendita assoluta i 12-13 (?) milioni di una mappa monumentale di Boetti da Tornabuoni (che triangola una dilatata Arte Povera con la Bourse e un compendio del Movimento in galleria). Fuori dal podio, e per poco non a 8 cifre, Julie Mehretu da White Cube con 9,5 milioni stratificati e monocromatici. Basel d’oro per lo stand più bello, quindi più curato, a Di Donna: Hallowed Ground, a tinte giada in salsa surrealista. Il dialogo immaginifico tra quattro artisti operanti a Parigi tra gli anni Venti e Cinquanta -Yves Tanguy, Wifredo Lam, Agustin Cardenas, Alicia Penalba- che poi volerà sulla Madison in sede, a New York. Segue, di diritto, Pace, assemblato in maniera sublime da Paulina Olowska intorno alla figura della strega. L’artista polacca, che alla preview girava per lo stand suonando campane in abito da suora, ha riunito alcune sue opere con quelle di Louise Nevelson, Kiki Smith e Lucas Samaras. Chapeau. Senza fare la straziante lista della spesa delle vendite, di seguito una via l’altra le 10 opere degne di nota proposte tra i corridoi: il polittico latte e bruni di Joan Mitchell (Untitled, 1974), da Skarstedt (4,2 milioni); la musica arancia-cobalto di Moonshine Sonata del 1961 di Hans Hofmann (7,5 milioni, da Yares); due metri rosso fuoco di Abstraktes Bild di Richter del 1986 (22 milioni, da Vedovi); uno storico e graffiato Hantai del 1955 (Peinture, da Thaddaeus Ropac, 1 milione); Il Roman Bath (1890) bagnato in acquerello di Klimt (Richard Nagy); il drappeggio intelaiato di Sam Gilliam (Snokebite, 1968) da Kordansky; il mosaico di tessere telluriche di Andreas Eriksson (Texture Mapping, 2024) da Neugeriemschneider, a 300 mila euro; gli abissi di Matta (Eupure, 1944) da Applicat-Prazan (1,3 milioni); l’orgia temperata di Family Portrait (1977) di Dorothea Tanning (Alison Jacques, 600 mila euro); la composizione in quattro tessere a ritratto verticale di David Graves dipinto da Hockney nel 1982 (Van de Weghe, 5,2 milioni). I capolavori ci sono, i visitatori ci sono (65 mila in 5 giorni), i collezionisti ci sono e comprano (dall’Europa intera agli Stati Uniti e l’Asia, qualcosa dall’America Latina); ci sono la sceicca qatariota Al-Mayassa, Natalie Portman, Cathy Yan, Rania di Giordania, Alberto Mugrabi e pure Midnight in Paris Owen Wilson, e c’è immancabile la pioggia, da giovedì costante, tanto da bucare la calotta del Grand Serra e cascare sugli stand di sotto, c’è la martoriata Beirut con Sfeir Semler e Etel Adnan, c’è l’Africa, da Johannesburg (Goodman) al Medio Oriente, con ATHR, Marfa’ gallery e l’86enne Nil Yalter (da The Pill), nata a Il Cairo e naturalizzata turca, femminista e attivista, fresca di Leone d’oro in Biennale. Ci sono (stati) oltre 220 musei e fondazioni da tutto il mondo, dal MoMa all’Art Institute di Chicago, dall’Elgiz di Istanbul al Leeum Museum di Seoul, dal MAM di San Paolo al M+ di Hong Kong. Ci sarebbe, ma c’è tempo, da osare di più in fiera, lato proposte e progetti, per provare a scalzare Basilea e Londra (anche se la cosa migliore sarebbe promuovere un trittico complementare che si alimenta a vicenda da giugno a ottobre) e alzare il livello dell’offerta delle gallerie in città. Oltre Tornabuoni prima citata, si salvano James Turrell da Almine Rech, Harold Ancart da Gagosian, Max Ernst da Bucher Jaeger, Rashid Johnson da Hauser&Wirth, Dana Schutz da Zwirner e poco altro. Si può fare di più, Londra da questo punto di vista dista più di 2 ore e un quarto. Ricapitolando: prendere l’Eurostar non è mai stato così piacevole, così come volare su Orly e prendere la nuova Metro 14 che arriva in 30 minuti a Chatelet. Poi viene tutto da sé: l’aria eccitata che satura i boulevards, l’elettricità che ribolle in città come il pastiche internazionale di questa Art Week, gli ingredienti che montano la Basel Paris quiche: Arte Povera, Wesselmann, Surrealismo, Grand Palais, Hype, Porridge e Sticky toffee pudding. Bon appétit.

Wesselmann da Gagosian
Picasso da Nahmad
Malevich da Hauser&Wirth

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