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Un viaggio nei sentimenti. L’arte del vetro di Silvia Levenson, intervista

“Little Cinderella” (2005). Kilncast glass, copper nail. cm 19x7x17. Courtesy Galleria Traghetto. Photo by Paolo Sacchi. (silvialevenson.com)

Incontriamo Silvia Levenson nella sua abitazione/studio a Lesa sul lago Maggiore, provincia di Novara. Lo studio è ricavato da una dismissione di una grande cartiera, frazionata e trasformata in alcune unità immobiliari. Sul fianco scorre un piccolo torrente, intorno fitta vegetazione boschiva, strada privata senza uscita, vista lago.

Silvia, sei nata a Buenos Aires nel 1957, cosa è successo perché hai deciso di venire in Italia?

Nel 1976 c’è stato un colpo di stato militare in Argentina che finì con la sparizione di 30.000 persone. Noi diciamo “desaparecidos” perché all’inizio i militari negavano la loro esistenza ma sono stati uccisi dopo essere stati torturarti in campi di concentramento clandestini. Il mio ex marito ed io eravamo militanti di sinistra e come tantissimi argentini siamo stati perseguitati. Nel ’78 un gruppo paramilitare è venuto a prenderci a casa dei miei suoceri che era il nostro indirizzo formale, fortunatamente non abitavamo lì. In quegli anni due dei miei cugini sono stati uccisi e la loro mamma, mia zia Elsa Rabinovich de Levenson è stata buttata da un aereo durante i terribili voli della morte.

Abbiamo resistito fino al 1980 quando siamo arrivati in Italia dopo un viaggio in nave. Avevo 23 anni, un figlio di 11 mesi e una figlia di 4 anni.

Siamo scappati ma non volevamo sentirci delle vittime, eravamo molto coinvolti sulla mancata libertà e sul terrore che il regime imponeva alla popolazione. Andammo a vivere a Vigevano.

Cosa fai qui, lontana da tutti e tutto?

Anch’io me lo chiedo ogni tanto! Qui posso avere uno studio che non potrei permettermi a Milano ma posso godermi una concentrazione assoluta, il silenzio e ritmi più umani. All’inizio pensavo che l’essere così isolata sarebbe stato un impedimento per lo sviluppo del mio lavoro. Ma già nel 2000 lavoravo per lo più all’estero, dunque non ha fatto molta differenza. Naturalmente viaggio tanto perché ho bisogno di vedere il mondo.

La tua arte si intreccia con il percorso della tua vita, piena di simboli e riferimenti tra tenerezza e amore, ma anche dolore.

E’ vero. Mi ricordo che quando è tornata la democrazia in Argentina, nel 1984 ho avuto la possibilità di parlare con mio zio, Gregorio Levenson che è stato molto importante per me. Lui mi ha raccontato le storie dei miei nonni russi emigrati in Argentina nel 1905 dopo aver partecipato ai primi sollevamenti contro gli zar e che erano arrivati a Buenos Aires cercando un posto più tranquillo dove vivere e crescere i loro figli.

Ho realizzato allora che quel viaggio iniziato in Russia non si era mai fermato.

Un’altra zia, Raquel Levenson, nel 1937 era andata in Spagna per lottare contro Franco ma con la sconfitta dei repubblicani spagnoli finì nella URSS dove poi è nato suo figlio. E’ stato in quel momento, ascoltando quei racconti, che ho sentito la necessità di iniziare un lavoro che mi facesse riflettere e capire ciò che era attorno a me.

Non ero interessata all’astrazione o al paesaggio ma ai miei sentimenti, alle esperienze che costellano il percorso di ciascuno cercando di rappresentarne l’intensità delle mie emozioni e della storia delle mie origini.

Cosa ricordi dell’incontro con Louise Bourgeois (pubblicato sulla rivista Flair nel 2003)?

Nel 2003 ero a NYC e ho partecipato ad uno dei salon che Louise Bourgeois organizzava mettendo a disposizione la sua casa e la sua esperienza di donna e di artista. Come al solito, le cose mi sono capitate senza sapere fino in fondo l’importanza che avevano. Mi ricordo che Louise non voleva autorizzare il fotografo a fare un servizio perché lei preferiva documentare gli incontri attraverso i video di un’artista di sua conoscenza ma casualmente quella volta non c’era. Lui insistette ed alla fine arrivarono ad un accordo… il fotografo era Elliot Erwitt! (che io allora non sapevo chi fosse…). Quell’incontro con la Bourgeois è stato centrale per me. Quella domenica chiedeva ai partecipanti di presentarsi ed eventualmente di mostrare i propri lavori. Io avevo un catalogo e glielo feci vedere. Normalmente quando mostravo il mio lavoro sulle tensioni domestiche mi chiedevano se avevo dei problemi, se ero sposata, se ero stata picchiata, ecc. ecc. A quelle domande rispondevo sempre dicendo che attraverso il mio lavoro indagavo su una realtà domestica generica e che non parlavo della mia vita, che non facevo arte-terapia. Finivo sempre il discorso dicendo che era come immaginare Agatha Christie come una potenziale assassina. Anch’io, pensavo, avevo il diritto di esercitare la mia arte senza necessariamente raccontare qualcosa del mio vissuto.

Comunque Louise Bourgeois, con il catalogo in mano, mi guardò e mi chiede se avevo avuto una infanzia difficile. Era la solita domanda ma a LEI, cosa potevo rispondere? Le stesse cose che ero abituata a dire? Proprio a LEI che ha sempre sostenuto che il suo lavoro era la sua vita? Naturalmente, di getto, ho risposto: sì, con le lacrime agli occhi. Lei, in un attimo, mi aveva smascherato e tolto a me stessa l’inconsapevole finzione dietro la quale nascondevo le mie paure nel timore che le mie personali emozioni non dovessero mai trasparire. Dopo quello scambio ho cominciato ad avere coraggio per trovare un nuovo modo di comunicare il mio lavoro, su ciò che sentivo nelle mie esperienze senza più negare le mie emozioni.

Accettando di mostrare ciò che nascondevo nell’inconscio sono diventata più forte e più consapevole del mio lavoro ed ho imparato a parlare più liberamente delle mie opere congiuntamente alla mia vita. Grazie alla favolosa Louise Bourgeois ed a quell’incontro straordinario.

Photo by Elliot Erwitt (silvialevenson.com)
A sinistra Silvia Levenson. Photo by Elliot Erwitt (silvialevenson.com)

L’utilizzo del vetro nella sua fragilità non limita la produzione ed il mantenimento dell’opera stessa?

Naturalmente come artista ho molte domande e poche risposte.

Tante volte mi chiedo se ha senso continuare ad usare un materiale così difficile come il vetro, per di più con una tecnica antichissima precedente alla soffiatura. Ma sono affascinata dalla sua ambiguità. Usiamo il vetro per proteggerci e isolarci nelle nostre case, ci fidiamo tanto che lo avviciniamo alle nostre bocche per bere ma sappiamo anche che può rompersi in mille pezzi e farci del male: il materiale ideale per rappresentare l’ambiguità dei rapporti umani.

La tua scultura si può definire figurativa, sarcastica e tragica. Il messaggio dei tuoi lavori è ironico ma con il sottile riferimento alla tragedia umana, quella domestica, delle radici indissolubili, quella senza un reale perché… che narrazione racconti, che allerta segnali?

I miei lavori si inseriscono concettualmente in una zona criticamente scivolosa. Alludo a drammi o situazioni difficili come possono essere le tensioni domestiche o la violenza ma in un modo che può risultare ironico o sottile. Il vetro mi serve per distanziarmi fisicamente e mentalmente dai drammi e in genere il mio lavoro risulta esteticamente “gradevole” perché è più facile soffermarsi alla prima sensazione derivata dall’immagine mentre per intuire il messaggio più profondo è necessario, come in tutte le cose, soffermarsi poco di più per avere una conoscenza più appropriata.

Ad esempio, per parlare delle difficoltà quotidiana ho realizzato il pezzo “Tea Time is back” dove una teiera e le tazze hanno delle spine come le rose. Visualizzo qualcosa che ho sperimentato ma su cui normalmente non si parla per timore di risultare poco gradevoli.

Di che cosa? Ne parliamo?

E’ quella sensazione strana, irrazionale, apparentemente immotivata che spunta dai pensieri in qualsiasi momento, quella bizzarra percezione immisurabile che pone una visione più allargata della realtà. Ad esempio al mattino, quanto mi sveglio, tante volte sono avvolta dai pensieri delle difficoltà, mi attanaglia quel senso di faticosi problemi da affrontare senza avere la certezza di poterli risolvere. Così magari proprio quando sto gustando in tranquillità un tè caldo con un’amica mi nasce spontaneamente il pensiero che mi fa togliere mentalmente dal luogo in cui mi trovo e con l’immaginazione vedo le spine della vita che mi tocca affrontare. E’ quella emotività interiore, quella vaga, astratta, sensazione di malessere, che mi fa navigare su altre sfere, lontane da quelle visibili di quel luogo nel quale mi trovo, in quel preciso momento.

Continua…

Anche nella serie “Still Life” dove ci sono delle bottigliette di profumi e medicinali che promettono felicità e bellezza, equilibrio, e anti aging. Alludo a come la nostra insicurezza provocata dagli imperativi sociali sostiene economicamente le industrie cosmetiche e del benessere che fatturano miliardi provocando un senso diffuso di disagio ed inadeguatezza che costringe uomini e donne a modificare il proprio corpo, negando e nascondendo l’evidenza del proprio tempo.

Le scarpine da bambina con i chiodi e spine eludono ad una infanzia difficile…

Anche questo lavoro nasce da un racconto personale perché la mia mamma comprava a me ed alla mia sorellina delle scarpine che dovevano durare tutto l’anno. Con l’usura qualche piccolo chiodino emergeva e cominciava a dare un po’ fastidio, ma non potevano lamentarci e nemmeno ribellarci. Con un sasso o un martello cercavamo di sistemare il disagio, a volte senza riuscirci.

Io non so se le scarpe erano fatte così nell’Argentina di quegli anni o se mia mamma non poteva permettersi di comperare delle scarpine migliori. Ma le scarpine con i chiodi che faccio nelle mie opere sono nate da quel ricordo, bellissimo e struggente.

Quando l’associazione 24marzo – che a Roma seguiva i processi legali contro i militari di origine italiana – mi ha chiesto delle immagini da usare per sostenere il lavoro delle Nonne di Plaza di Mayo, sono rimasta sorpresa. Non pensavo di averne. Durante la dittatura militare le nonne avevano scoperto che molte donne scomparse erano incinte e che i loro figli erano stati dati in adozioni illegali dopo essere state uccise nei campi di prigionia e avevano individuato 500 bambini che mancavano all’appello. Grazie al loro lavoro e alla creazione della banca del DNA, 133 figlie e figli dei desaparecidos hanno recuperato la propria identità. Solo allora ho capito (talvolta sono lenta…) che tantissimi dei miei lavori erano collegati a quei fatti: i vestitini di vetro, l’altalena vuota, il tappeto di filo spinato con una piccola sedia in mezzo…

Forse il mio è un lavoro disturbante che nasce da questo forte disagio, un desiderio di rivendicazione, una necessità di porre ascolto e attenzione a questi soprusi. Una difesa dell’Amore. Per me, ma forse per tutta la mia generazione, quelle violenze erano così radicate nell’inconscio che non avevo la capacità di vedere la realtà ben focalizzata con nitidezza. Forse questo ci ha resi impotenti, assuefatti al dolore accettando l’orrore come un dato di fatto, troppo interiore per reagire con forza irruenta. Forse anche per questo il mio lavoro può apparire delicato nella forma ma enigmatico nel contenuto.

Nei lavori con le altalene, i vestitini, le parrucche cosa intendevi raccontare?

Sono lavori diversi: quando ero piccola mi piaceva andare sull’altalena e ricordo che desideravo volare via lontano ma avevo anche una forte paura nonostante l’ebbrezza della sensazione di libertà. Dunque quei lavori rappresentano quell’ambiguità.

I vestitini sono nati invece come una riflessione sull’incapacità che talvolta hanno gli adulti di proteggere i bambini: quel lavoro, nella Collezione della Fondazione Alexander Tutsek a Monaco in Germania, è formato da 133 vestitini di neonati che rappresentano i figli, oggi adulti, di persone scomparse, che hanno recuperato la propria identità.

Nel caso delle parrucche alludevo al peso e alla fragilità degli stereotipi che la società spesso ci impone per essere accettati: essere donne belle o uomini forti e rispondere alle aspettative sociali condivise.

Il sesso che importanza ha nel tuo lavoro?

Nella nostra vita il sesso è molto importante. Nel mio lavoro è sottilmente collegato alle attese e alle regole che ci impediscono di viverlo come meglio vogliamo ma nelle mie opere non è un elemento determinate, preferisco mettere l’accento sui sentimenti e sulle contraddizioni del significato di bellezza che possono alludere al desiderio di auto compiacimento per sentirsi attrattivi, voluti ed accettati, dagli altri. La nostra società sembra succube del desidero sfrenato di con-piacere come elemento fondamentale.

Eleganza e raffinatezza del tratto. Le tue opere sono tecnicamente perfette, senza sbavature, precise, millimetriche. Come inizia il tuo lavoro, poi come si sviluppa?

Inizio con un’idea confusa, un pensiero vago, a volte cerco di fare un disegno, ma poi sento subito la necessità di partire mettendomi all’opera impastando le mani per rendere tridimensionale il progetto. Sento il bisogno della materia, della sua concretezza solida, da toccare, da muovere, girare. “L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante non so” diceva la poetessa Wislawa Szymborska. Sento che il non sapere, l’ignoranza sia l’inizio di tutto.

Credo che riesco a vivere in questo mondo solo attraverso l’arte. Posso guardarmi attorno, concentrarmi sulle mie sensazioni e trasformarle in oggetti o installazioni. Una mia amica scriveva che tutti, in qualche modo, siamo sopravvissuti ad un naufragio. Ecco, io mi sento così: una sopravvissuta e sono felice di esserlo. Credo che attraverso il mio lavoro creo uno spazio, una specie di ponte dove le persone se vogliono possono entrare e condividere delle sensazioni. E questo secondo me è il mistero dell’arte. Non c’è niente di prevedibile né di obbligatorio.

Considera che io non ho alcuna formazione artistica e nemmeno tecnica, sono disegnatrice grafica. Ho cominciato ad esporre quando avevo ben 35 anni imparando da sola i segreti dell’arte vetraria.

Le mie origini sono ibride. Dalla parte paterna una famiglia russa molto politicizzata e da quella materna, una famiglia campagnola. Mio nonno era un domatore di cavalli e mia mamma è cresciuta nella Pampa.

Non mi dimentico mai da dove vengo, specialmente quando ricevo dei premi internazionali, magari in qualche collegio universitario, e penso ai miei parenti lontani che chissà cosa pensano di me. Non avendo seguito degli studi artistici tradizionali non ho mai avuto delle aspettative legate all’idea del successo nel mondo dell’arte. Vendere i miei lavori, esporre nei musei, per me sono esperienze assolutamente non previste, pensavo di non meritarli. La mia sensazione era che prima o poi si sarebbe saputo che non ero all’altezza e che i miei zii e cugini andavano a cavallo per le pampas. Dopo ho capito che quello era la “sindrome dell’impostore” e che non esiste assolutamente un posto dove io dovrei o non dovrei essere. Mi ricordo quando ho ricevuto un premio, il Rakow Commision dal Corning Museum of Glass negli Stati Uniti. Che fosse un museo altamente specializzato in opere di vetro non lo avevo capito e non avevo preparato neppure uno “speech” quando sono andata a riceverlo. Invece è un premio molto rilevante per un artista che usa il vetro come materia, un traguardo che va ben oltre all’acquisto e all’esposizione permanente dell’opera nel Museo del vetro più importante del mondo.

Con che galleria lavori?

Sono rappresentata da RoFa Project in Maryland (USA), Galeria Esther Montoriol in Barcellona. In Italia dalla Galleria Punto Sull’Arte a Varese e da Dr Fake Gallery a Torino.

Riesci a vivere del tuo lavoro?

Fino ad oggi sono riuscita a vivere del mio lavoro. Ho iniziato a esporre a Milano nel 1995 nella galleria di Maria Cilena e da allora le mie sculture e installazioni si sono sviluppate in diverse direzioni. Oltre a questo sono invitata all’estero ad insegnare la tecnica che uso (fusione del vetro alla cera persa): Giappone, Stati Uniti, Cina, Francia, Germania, ecc. e due volte all’anno organizzo dei workshops nel mio studio.

Adoro insegnare, anzitutto perché non avevo mai pensato che avrei potuto farlo e poi perché è un modo importante di essere in contatto con altre persone, scambiare esperienze, racconti e punti di vista. Altrimenti sarei chiusa nello studio concentrata solo su di me.

Che ambizioni hai per il tuo futuro?

Onestamente vivo molto il presente e questo è un momento speciale: vorrei azzerare il mio lavoro. Non so bene come spiegarlo. Quando ho iniziato, nel 1995, avevo preparato un progetto specifico da presentare alla prima galleria con cui ho lavorato. Dopo è stato un turbinio di idee e progetti, di spazi che mi chiedevano delle mostre e dunque io sviluppavo delle sculture o installazioni finalizzati a dei luoghi precisi. Naturalmente con tematiche che nascevano da me, in particolare le zone di conflitto che possono essere il corpo, la casa, la famiglia e le frontiere. Ma questo l’ho capito dopo, non ne ero consapevole quando lo facevo. Vorrei tornare a quel momento nel quale faccio senza sapere dove sto andando.

Sorridi sempre, sembra che hai una fiducia cristallina per il futuro.

Ah, sì, questo è l’insano ottimismo della famiglia Levenson, ci piace sempre pensare che il peggio è passato.

“Identidad” (2015). University Museum, Washington DC – USA. Photo by Marco Del Comune Photographer (silvialevenson.com)

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