Piazza San Marco, una sera d’inverno. Le Procuratie Vecchie si stagliano contro un cielo indecifrabile, come pagine di un libro antico che nessuno osa sfogliare. Eppure, qualcosa accade sotto queste volte solenni: undici lampadari, opere di undici spiriti erranti, si accendono, portando con sé un bagliore che non è solo luce, ma anche memoria, sogno e intuizione.
Murano, l’isola delle trasparenze, dell’alchimia che converte il silicio in cristallo, risorge come un’araba fenice. Qui, undici artisti provenienti da mondi diversi si sono confrontati con la sfida di dare nuova voce al vetro, di trasformare un oggetto quotidiano in un portale verso l’assoluto. L’antico dialoga con il moderno: il lampadario non è più solo un simbolo di opulenza, ma un contenitore di significati, una costellazione domestica.
Che cos’è un lampadario, in fondo? Potremmo limitarci a definirlo come un oggetto funzionale, un mezzo per diffondere luce in uno spazio. Ma in questo contesto, il lampadario trascende la sua utilità per diventare un simbolo, un frammento di un discorso più ampio che include arte, filosofia e politica. Venezia, città-palinsesto, si presta perfettamente a ospitare questa manifestazione. E così, attraverso le opere di undici artisti, il vetro di Murano torna a raccontarsi, oscillando tra la tradizione e la sperimentazione.
Abbiamo un maestro come Joseph Kosuth, che ha disegnato un lampadario che non illumina soltanto, ma riflette: una silhouette specchiata che si piega su se stessa, come se il tempo fosse stato intrappolato in un eterno ritorno. È un gioco filosofico, una danza tra il tangibile e l’immateriale, un omaggio alla ragione e ai suoi limiti. Kengo Kuma, invece, ci offre dieXe, dove la semplicità veneta si fonde con la precisione orientale. La “X” diventa un simbolo, un nodo che lega le storie di popoli lontani. Il verde pavone, colore scelto, riflette la laguna: viva, mutabile, infinita. Marina e Susanna Sent evocano la delicatezza delle reti da pesca. Il loro lampadario è un intreccio di fili, una metafora del destino umano: fragile, ma sorprendentemente resistente. Ogni nodo è una storia, ogni luce un pensiero che si fa spazio nel buio. La trasfigurazione del serpente di Deborah Czeresko ci porta verso territori selvaggi. Le sue luci emergono dalle bocche di serpenti, simboli di trasformazione e rinascita. La luce, tradizionalmente benigna, si carica di ambiguità, diventando potenza primordiale. A quasi metà del percorso, Hans Weigand ci ricorda la fragilità del nostro tempo con il suo Venetian Wavebreakers Chandelier. Dighe di vetro sfidano il mare, così come l’uomo tenta di arginare le sue paure e i suoi limiti. Un’opera che parla di Venezia, ma anche del mondo.
Cammino sotto queste luci e penso a quanto sia labile la linea che separa l’arte dalla vita. Ogni lampadario è una piccola sinfonia: note di vetro, pause di ombra. La loro presenza illumina, sì, ma invita anche a riflettere. Venezia, specchio del mondo, ci insegna ancora una volta che la bellezza non è mai fine a se stessa. È un atto di coraggio, una fiammella che danza nella tempesta. E mentre le luci si accendono, come battiti di un cuore immenso, mi sembra di sentire un canto. Non sono i lampadari a cantare, né il vetro. È la città stessa, che sussurra ai suoi figli un segreto antico: “Ricordate di creare, anche quando tutto sembra perduto.”