É allestita nella sala del Plastico di Pompei del MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, una mostra dedicata ai disegni e le ricostruzioni realizzate durante gli scavi di Pompei nel Settecento.
I documenti sono tutto ciò che resta a testimonianza del procedimento interpretativo della stratificazione archeologica, dopo che lo scavo si è concluso. Essi formano l’unica base analitica attendibile su cui fondare la ricostruzione delle vicende storiche del sito indagato. Ciò, ha indirizzato l’attenzione degli archeologi verso queste tematiche già nei secoli scorsi; tuttora vi è una ricerca costante per migliorare la qualità dei documenti, sfruttando tutte le possibili innovazioni, anche tecnologiche. Lo standard attuale si è consolidato con l’acquisizione del metodo dell’indagine stratigrafica che, oltre a stabilire le regole della tecnica di scavo, determina anche cosa, quando e come documentare.
Nella seconda metà del Settecento, durante gli scavi di Pompei, le ricognizioni sul campo erano corredate da disegni e ricostruzioni, che spesso finivano nelle pubblicazioni ufficiali sponsorizzate dai diversi regnanti di Napoli, da Carlo di Borbone (1716-1788) a Ferdinando II (1810-1859), passando per Gioacchino Murat (1767-1815) e la moglie Carolina (1782-1839). Una interessante mostra che ricostruisce quel periodo con ventisei opere, è allestita nella sala del Plastico di Pompei, del MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, provenienti dai fondi dell’omonima istituzione, dalla Biblioteca, dall’Archivio Storico, dall’Archivio Disegni e Stampe, e dalla raccolta dei rami della Stamperia Reale, fino al 31 gennaio 2025.
L’esposizione dialoga con l’installazione permanente della città di Pompei, realizzata tra il 1861 e il 1879. Come si svolgevano gli scavi a Pompei dopo la scoperta? Perché le pitture erano asportate? A quando risale la prima idea di lasciare le pitture in situ? E quali erano i rischi? Dalle prime imprese settecentesche fino a metà dell’Ottocento, diverse tecniche di documentazione, conservazione e restauro furono sperimentate. Non tutte ebbero successo, e i disegni prodotti nel processo rimangono talvolta l’unica fonte per ricostruire una pittura andata perduta. Le opere dell’exhibit raccontano questa storia.
Dopo due secoli di dominazioni straniere, nel 1734 il Sud Italia divenne un Regno indipendente con Carlo di Borbone sul trono. Con la ritrovata autonomia, si avvertì l’esigenza di costruire palazzi reali e riserve di caccia che donassero lustro ad una corte stabile a Napoli. Durante le fasi di costruzione della Reggia di Portici nel 1738, fu scoperta la città di Ercolano. E’ poco chiaro se il ritrovamento fu un mero caso o se il re Carlo riprese gli scavi nel sito in cui, già nel 1711, il Principe d’Elboeuf (1677-1763) ritrovò alcune sculture. Pompei fu scoperta dieci anni dopo, nel 1748.
Inizialmente, gli scavi sulle falde del Vesuvio non furono condotti con metodo sistematico. Le pitture parietali e gli oggetti antichi erano rimossi documentando solo occasionalmente il loro contesto originario. L’idea iniziale era quella di utilizzare le antichità per decorare la vicina Reggia, ma il loro numero superò presto le aspettative e fu realizzato il Real Museo di Portici.
Nel 1763, Pompei fu riconosciuta come l’antica città distrutta nell’eruzione del 79 d.C.. Dal 1780 circa, e poi nel decennio francese, sotto Gioacchino Murat e Carolina, che regnarono dal 1808 al 1815, diverse tecniche di documentazione, conservazione e restauro degli affreschi furono sperimentate. Non tutte ebbero successo. I disegni prodotti nel processo restano talvolta l’unica fonte per ricostruire un affresco andato perduto.
Ad accogliere i visitatori nella Sala del Plastico del MANN, sono i volumi che documentano le campagne di scavo dell’epoca. La prima pubblicazione ufficiale che illustrava i siti archeologici delle due città vesuviane è rappresentata da Le Antichità di Ercolano Esposte. Il monumentale trattato in folio, pubblicato dalla corona napoletana, è formato da otto volumi: dal primo fino al quarto è incentrato (1757-1765) sulle Pitture; il quinto tratta i Busti in bronzo (1767); il sesto le Sculture in bronzo (1779); il settimo, di nuovo le Pitture (1779) e l’ottavo, le Lucerne (1792). Agli inizi questi testi erano destinati alla vendita, ma vennero distribuiti dalla corona come doni diplomatici. Solo negli anni Settanta del Settecento furono destinati ad una fruizione pubblica.
I primi sette volumi sono dedicati alla figura di Carlo di Borbone, promotore dei primi scavi e del progetto editoriale. Il ritratto che introduce il testo, realizzato da Filippo Morghen (1730-1807) e Camillo Paderni (1700-1770), celebra il sovrano per le sue scoperte archeologiche, ed è raffigurato con una pala e alcuni oggetti simbolici posizionati in basso a destra. Nel 1759, il re lasciò Napoli per ascendere al trono di Spagna e la tavola fu reincisa con una nuova iscrizione intorno al ritratto.
Per lavorare alla produzione delle tavole de Le Antichità di Ercolano, del 1749, fu creata a Portici una scuola di incisori e disegnatori. Per la redazione del testo, invece, nel 1755 fu creata l’Accademia Ercolanese, una istituzione composta da quindici dotti. I disegni preparatori sono molto rari e una recente donazione al MANN di 23 fogli, realizzati da Giuseppe Aloja e da Giovanni Elia Morghen, tra cui spicca Affresco con figura femminile (Nemesi), ci permette di ricostruire il processo di traduzione dal reperto antico all’incisione.
Tra il 1749 e il 1752, la corona acquistò numerose lastre di rame per l’esorbitante cifra di 600 ducati. Esse erano incise a Portici con disegni realizzati direttamente di fronte ai reperti. Alcune prove di stampa recano note manoscritte che documentano con cura il peso delle lastre e il corrispettivo valore, come nell’opera in esposizione dal titolo Armatura, di Domenico Casanova e Francesco Morelli.
Una volta completata una incisione, la lastra era trasportata da Portici a Napoli per tirarne una prova nella Stamperia Reale. Il risultato era sottoposto al disegnatore che apponeva le sue correzioni a penna o la firmava in segno di approvazione. Successivamente, la matrice veniva consegnata al direttore della Stamperia che la firmava come prova di ricevuta: ne è un esempio, Testatina con frammento in bronzo, realizzato da Ferdinando Strina e Giovanni Casanova.
Dopo i primi anni, l’entusiasmo dei membri dell’Accademia Ercolanese si affievolì. Già nel 1760, il presidente Bernardo Tanucci (1698-1783) lamentava che, degli iniziali quindici membri, solamente due o tre erano attivi. Se la produzione dei rami per le tavole procedeva spedita, la stesura del testo arrancava. Dopo le dimissioni di Tanucci da Primo Ministro nel 1776, i lavori si fermarono. L’ottavo volume apparve nel 1792, quando l’Accademia Ercolanese fu ravvivata su iniziativa del marchese Domenico Caracciolo (1715-1789). Gli altri volumi non videro mai la luce e, oltre 250 rami finemente incisi, rimasero nella Stamperia Reale. Questi riproducevano oggetti in bronzo di uso domestico, vetri, statue, busti in marmo, mosaici e altri affreschi, come le Serrature di Francesco de Grado, o i Vetri di Francesco Iacomino, entrambi con la collaborazione di Giovanni Morghen.
Intorno al 1810 circa, una serie completa dei Rami inediti fu rilegata in due volumi per Carolina Murat. Un’altra, invece, quasi completa, fu rilegata in tre volumi ed è custodita presso la Società Napoletana di Storia Patria. Nel 1844, venti dei Rami Inediti furono pubblicati in un fascicolo, ciascuno accompagnato da una spiegazione erudita. Quest’ultimi furono pubblicati dalla Stamperia Reale mediante la curatela dei rinnovati membri dell’Accademia Ercolanese, con il titolo di Indice descrittivo de’ monumenti incisi restati inediti nella Stamperia Reale appartenenti alle Antichità di Ercolano e di Pompei.
IL DECENNIO FRANCESE
Con le guerre napoleoniche, la corte lasciò Napoli per rifugiarsi a Palermo nel 1806. La regina Carolina, moglie di Murat, fu un’appassionata promotrice delle imprese archeologiche, incentivò gli scavi dell’insula occidentalis di Pompei, patrocinò grandi opere editoriali e decorò i suoi appartamenti con i reperti antichi. In questi anni la gran parte delle collezioni di antichità di Ercolano e di Pompei fu trasferita dal Museo di Portici al Real Museo di Napoli, che proprio in quegli anni allestì e aprì al pubblico nel Palazzo degli Studi, dove vi è l’attuale sede del MANN. La maggior parte delle pitture venne trasferita nella città partenopea solo tra il 1826 e il 1827. La regina non solo continuò a sponsorizzare le operazioni di documentazione intraprese sotto i Borbone, ma patrocinò anche nuovi e ambiziosi progetti editoriali per pubblicizzare le nuove scoperte di Pompei, come l’edilizia privata: ne è un esempio Les Ruines de Pompei, di François Mazois (1812-1838). Essa comprende quattro volumi in folio: il primo tratta gli edifici pubblici; il secondo quelli privati; il terzo, i monumenti pubblici e il quarto le pitture e i mosaici. A differenza de Le Antichità di Ercolano Esposte, l’opera fu subito disponibile sul mercato ed ebbe un ruolo importante nella diffusione dello stile pompeiano nelle arti decorative del periodo. Per redigere il testo e preparare i disegni per la sua pubblicazione, a Mazois fu garantito libero accesso ai Musei Reali e ai siti archeologici intorno a Napoli, grazie ad un documento, visibile in mostra, dell’Archivio Storico del MANN, dove si nota la richiesta ufficiale presentata all’epoca a Michele Arditi (1746-1838), direttore del Musei di Napoli e degli scavi del Regno. La vicenda del trasporto delle antichità da Portici a Napoli fu lunga e complessa. Il progetto di unificazione dei musei di Portici e Capodimonte ebbe origine nel 1777.
GLI ORNATI DELL’ANTICA POMPEI
Alcuni tentativi di lasciare gli affreschi in situ a Pompei risalgono già alla scoperta del Tempio di Iside nel 1764. Intorno al 1780 si datano gli esperimenti più sistematici. Nel 1787, i membri dell’Accademia Ercolanese chiesero al re Ferdinando, di copiare a colori quelle pitture, come la Casa di Sallustio e Villa di Diomede, che non si potevano asportare. Francesco Morelli e Giuseppe Chiantarelli furono incaricati di disegnare a colori le prime pitture, producendo gouache di straordinaria sensibilità. I loro disegni furono tradotti in incisioni per la pubblicazione di una nuova opera: Gli ornati delle pareti ed i pavimenti delle stanze dell’antica Pompei incisi in rame. Il primo volume apparve nel 1796, ma i tumulti delle guerre napoleoniche interruppero il progetto.
Le gouache erano tradotte in stampe dagli incisori della Scuola di Portici, finemente colorate a mano, ad imitazione degli originali. Non è chiaro a cosa servissero queste copie: forse come materiale di bottega per gli artisti stessi o come documenti per gli archivi dell’Accademia Ercolanese.
DOCUMENTARE PER CONSERVARE
Preservare le pitture in situ fu una sfida ardua. All’inizio del XIX secolo, si cominciarono a sperimentare vernici per preservare le opere e si attuarono i primi restauri, anche integrativi. A partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, le pitture furono ricopiate su carta velina in scala 1:1. I lucidi ottenuti erano utilizzati per riprodurre delle incisioni più piccole, ma sempre in scala. Le veline, spesso, recano l’indicazione del colorito originale degli affreschi, registrato prima delle operazioni di conservazione (in caso di sbiadimento, ossidazione o totale scomparsa).