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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Matteo Basilè, Gianluca Marziani, Massimo Mazzone

Matteo Basilè, Gianluca Marziani, Massimo Mazzone Matteo Basilè, Gianluca Marziani, Massimo Mazzone
Matteo Basilè, Gianluca Marziani, Massimo Mazzone
Matteo Basilè, Gianluca Marziani, Massimo Mazzone

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

 

E' morto Okwui #Enwezor, il curatore della Biennale di Venezia 2015. Aveva solo 55 anni
Okwui Enwezor

Matteo Basilè

La cultura occidentale sta attraversando una fase di profonda autocritica, in cui il peso del passato coloniale sembra spingerla verso un auto-annullamento. Nell’arte contemporanea, questo si traduce in un “razzismo al contrario”, dove il tentativo di compensare ingiustizie storiche rischia di marginalizzare l’identità occidentale. Questo processo è evidente nelle recenti Biennali di Venezia, dove, a partire da Okwui Enwezor nel 2015, l’asse curatoriale si è spostato verso narrazioni globali che spesso relegano l’Occidente ai margini. Se l’intento inclusivo è giusto, il risultato talvolta tradisce un equilibrio autentico, riducendo la complessità del dialogo culturale.
La nomina di Koyo Kouoh come curatrice della Biennale 2026 conferma questa tendenza. Direttrice dello Zeitz MOCAA a Città del Capo, Kouoh ha dichiarato di voler fare della Biennale un luogo per interrogarsi sulle connessioni tra cultura e decolonizzazione, definendola “un centro di gravità dell’arte globale”. Tuttavia, questa apertura, se non bilanciata, rischia di trasformare la Biennale in un manifesto politico che svaluta il contributo storico dell’Occidente.
La vera sfida non è negare le colpe del passato, ma costruire una narrazione che includa senza escludere, riconoscendo il valore di tutte le culture. Le Biennali future dovrebbero essere laboratori di coesistenza, dove la pluralità arricchisca anziché sottrarre. Solo così l’Occidente potrà ritrovare il proprio ruolo, non come oppressore o vittima, ma come parte di un dialogo corale e creativo.

 

Jannik Sinner
Jannik Sinner

Gianluca Marziani

La nomina di Koyo Kouoh stabilizza un modello identitario ben delineato nella scelte della direzione artistica, ovvero, in un mondo allargato e partecipativo servono visioni decentrate che affrontino, da una parte, la moltiplicazione di centri propulsivi, dall’altra l’avvicinamento delle periferie culturali ad un sistema di nuove dialettiche relazionali. La Biennale elabora mappature tematiche che indagano le connessioni tra genius loci, téchne e urgenze collettive; da oltre vent’anni le nomine per la direzione hanno depotenziato l’italocentrismo a favore di un eurocentrismo poi allargatosi alla capienza del mondo come articolata sovrageografia.
Ed ecco emergere, anno dopo anno, figure curatoriali nomadi, capaci di unire il proprio tessuto culturale alle istituzioni nei luoghi cardinali del Capitale, lavorando su nuovi modelli antropologici e cognitivi, su una ridistribuzione dei pesi linguistici e tematici, secondo attitudini non più verticaliste, nel tentativo di superare il colonialismo con una necessaria ridistribuzione di valori e modelli.
I lamenti sul minor spazio per l’arte italiana non sono altro che la conferma di una geografia culturale in trasformazione: e in questa rivoluzione, piaccia o meno, l’Italia artistica non gode di alcun “effetto Sinner” ma deve conquistarsi spazio con lacrime, sangue e giuste strategie. Come sono lontani i tempi in cui eravamo i padroni del vapore, o meglio, della bellezza.

 

Michail Bakunin
Michail Bakunin

Massimo Mazzone

Ritengo che l’indagine sul rapporto centro/periferia, ma anche come bambini e anziani e donne debbano essere relegati a “periferia” dell’uomo schiavo volontario ma lavoratore e produttivo in una società oramai definitivamente capitalista, non sia fuorviante. Che la decolonizzazione o riscrittura di processi colonialisti non sia fuorviante, a patto che temi come questi, non diventino “accademici” o “modaioli”.
Come anarchico, posso assicurare che la relazione omosessuale tra Bakunin e Fanelli, anarchicamente risulta del tutto irrilevante. Che ce ne importa a noi cosa fa sotto le lenzuola – dico per dire – Adriano, Giulio Cesare o Alessandro Magno!? Oggi a volte sembra – magari mi sbaglio io – che si vada stabilendo un atteggiamento da guardoni; bhe, io sono frocio bisessuale. E pervertito polimorfo, ok! E scusa il termine, e sti cavoli!? Se di mestiere sono scultore e anche insegnante, l’importante dovrebbe essere questo, quello che faccio come artista e come docente. E non con chi mi accoppio nella mia intimità.
Poi c’è ancora un tema irrisolto, ma veramente irrisolto… La razzializzazione, la negritudine, la percezione delle persone asiatiche nella cultura europea e nordamericana: restano ancora emarginati. Anche se il sindaco di Londra professa una religione differente, resta sempre come fosse un intruso, che pure essendo avvocato e sindaco di Londra resta outsider agli occhi dei molti sovranisti che razzolano nell’Aia dell’Europa.

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