Con un progetto inedito Oscar Giaconia (Milano, 1978) riallestisce il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone. L’esposizione Mockupaint (26 ottobre 2024 – 26 gennaio 2025) a cura di Stefano Raimondi gioca con l’artificio quale codice genetico del linguaggio pittorico.
Non sia mai che nel dettaglio delle definizioni storiche si debba, oggi come oggi, distinguere cosa sia reale da cosa sia astratto, o per lo più immaginato. Come se l’approdo visivo di ogni linguaggio non abbia più a che fare con la realtà. Eppure, cos’è reale? Tutto ciò che ci rassomiglia? Oppure ciò che ripercorre la valenza di un metodo all’insegna della finzione? Poiché, l’arte stessa è finzione, che ci piaccia o meno. E se mai qualche volta ha potuto sorprenderci con fatti reali, è stato stato mediante l’artificio.
Mockupaint di Oscar Giaconia ripercorre dunque il tratto saliente di ciò che la pittura può essere. Da stesura variabile e coinvolgente materiali su di una qualsiasi superficie, fino al gioco che della modificazione della materia sembra essere il corrispettivo. È un tipo di azione la sua che già nel titolo incontra il fondamento. Una parola costruita dall’unione di “pittura” (-paint) e “mockumentary”. Termine inglese, quest’ultimo, che a sua volta è composto da mock (letteralmente “fare il verso”, “prendere in giro”) e documentary (documentario).
Un fare che indica, pertanto e per sua natura, un andare, un mettere in moto, così come un attaccare e un adattarsi. Mutamento ed evoluzione, staticità delle cose che rappresentano tanto se stesse quanto la loro varietà. Nella modalità di un approccio del tutto personale e così ben delineato nella nuova serie NEMAT PUPPET FROG (2024). Opere in cui è lampante la percezione della forma dipinta come dovuta all’azione congiunta di acrilico, acidi, emulsione di caseina, mercurio cromo, anilina, ma anche fusaggine, ossidi, polvere di pelle combusta su pieno fiore nabuk. Per valutare poi come vero l’assioma del biologo e naturalista D’Arcy Wentworth Thompson, secondo il quale “tutte le cose sono quello che sono perché sono diventate in quel modo”.
Un modo e una forma, insomma, senza rimandi astratti, ma per di più tautologie. E di cosa se non di una metamorfosi che si dona nel particolare di ogni singola opera, come nell’insieme di un allestimento ideato con all’architetta Maria Marzia Minelli. Allusione di un cantiere con le sue stratificazioni, le esumazioni e gli scavi. Le cui componenti si espongono in un momento che di ludico ha ben poco, e rammentano, invero, il bluff della contraffazione. Pulite in senso chirurgico, e sezionate nei termini di una nettezza che ricorda il luccichio organico e minerale.
Se di scena si tratta, Oscar Giaconia ha trovato i suoi attori. Non nel pubblico, ma nel set di oggetti e “prop” fabbricati in cui dipinti e sculture, avvolti dall’installazione sonora Kanthèlios, composta da Steve Piccolo, brillano nel colore come elementi incontaminati. Frutti di un tempo attraverso il quale l’iconografia del parassita meraviglia nella sua apparente autogenesi (Parasite Soufflè, 2024). Immagine impropria come l’apparizione di un panorama dipinto ad olio su fibra cellulosica (U.P.D., 2020). L’artificio della pittura e la finzione documentaristica di ciò che in realtà è etimologicamente costruito. Reale, quindi, perché immaginato, e al fine ossessivo. Codice genetico della pittura stessa. Identità mostruosa dischiusa in teche di silicone, vulcanite, nylon, gomma para e neoprene.