Il Centro Pecci di Prato dedica una personale a Peter Hujar (USA, 1934-1987), Azioni e ritratti / viaggi in Italia, in mostra dal 14 dicembre 2024 all’11 maggio 2025. Se la fotografia è stata spesso associata alla documentazione e alla memoria, l’artista ha cercato invece di produrre immagini che costruissero una nuova realtà, viva e in grado di evolversi nel tempo.
L’ossessione per la rappresentazione del corpo umano ha il principale scopo di soddisfare, almeno per il breve istante in cui brucia ogni gioia, due delle pulsioni più irrefrenabili dell’uomo: il bisogno di connettersi con gli altri e quello ancora più forte di ricercare se stessi in tutte le cose. Ci sono autori più ego riferiti, o semplicemente più sinceri e schietti, che insistono sull’autoritratto portando l’esterno all’interno, arredando la loro immagine con suggestioni fuori di loro, assorbendo come spugne insaziabili il mondo circostante.
Poi ci sono gli artisti che alla rappresentazione di sé hanno alternato, se non preferito, rivolgere il loro sguardo altrove, su luoghi fatti di ossa e carne, su quell’inferno che nel linguaggio di Sartre abbiamo imparato a individuare come “gli altri”. I nostri simili, coloro che paiono come noi, ma non sono esattamente come noi; oppure coloro che sembrano abitare il polo opposto al nostro, salvo rivelarsi poi non così tanto dissimili. Forse è solo una questione di distanza, fisica ed emotiva. Magari avvicinandoci all’altro fino a sfiorarlo possiamo trovare qualcosa di noi, o creare un nuovo mondo, solo nostro e solo loro, che possa concretizzarsi in una forma fisica, eppure capace di evolversi come ogni cosa viva.
Un processo quasi alchemico che corrisponde alla passione fotografica di Peter Hujar (USA, 1934-1987), in mostra al Centro Pecci di Prato con l’esposizione Azioni e ritratti / viaggi in Italia. L’autore era convinto della possibilità generativa dei suoi scatti, nate per mano sua e dell’obiettivo che stringeva, delle gambe che lo portavano per le strade e i teatri dell’East Village della New York anni Settanta, del corpo con cui si avvicinava e dei corpi a cui si avvicinava, che fossero animali o persone, performer o nudi maschili. “Quando realizzo un’immagine spero sempre che abbia una vita propria, che non ha davvero nulla a che fare con quel momento. Non è qualcosa di congelato. È l’eco di quel tempo e ciò che è su quel pezzo di carta ha una vita propria. Che è molto diversa dalla vita che era nel momento in cui la foto è stata scattata“, raccontava Hujar del suo lavoro.
Prendiamo per esempio la fotografia più celebre di Hujar (Orgasmic Man), ironicamente resa iconica da un romanzo a cui ha fatto da copertina – Una vita come tante (2014) di Hanya Yanagihara – più che dall’attività espositiva ed editoriale dell’artista, che una volta lanciò uno sgabello addosso a un gallerista che avrebbe voluto esporlo a Parigi e in tutta la carriera pubblicò un solo libro fotografico, giusto per restituire la sua refrattarietà all’istituzionalizzazione. L’immagine ritrae un uomo sul punto di orgasmo. Proviamo a tornare nella New York del tempo e immaginare di essere figure invisibili nella stanza in cui Hujar sta lavorando, di vederlo avvicinarsi al soggetto mentre con la maglietta a terra e i pantaloni abbassati sta raggiungendo il piacere. Lo scatto non è solo una questione estetica, ma anche fisica. La ricerca dell’opera è ricerca dell’altro, e attraverso l’altro di noi stessi, di quel che vediamo nel soggetto, di quel che noi pensiamo lui sia, o cosa pensiamo stia provando.
Pensiero che nel tempo si evolve, muta, si adatta al momento e a chi la guarda. Anche perché, parliamoci chiaro: chi avrebbe mai detto che questo fosse un orgasmo? Con il dorso della mano che poggia filosoficamente sul viso, viso contratto in una smorfia poco piacevole, si sarebbe detto un’allusione al tormento esistenziale, al dolore senza uscita che condanna più di un uomo. Una visione forse aumentata proprio da Una vita come tante, che racconta le vicende tanto sfortunate e drammatiche del protagonista che paiono fare il giro e finire nel comico. E forse questo scatto, nella sua enigmaticità, racconta proprio del mondo dai caratteri incerti che ricercava Hujar: troppo stretto per garantire un contesto narrativo, troppo intenso per resistere la tentazione di ricercarlo.
Sarà forse per questa apertura di senso della poetica dell’autore, da introduzione infinita, da amore mai goduto e quindi perfetto, che un altro suo scatto (Orgasmic Man III) è stato scelto come copertina di un libro, dunque come porta d’ingresso muta ma evocativa. Il romanzo in questione è A misura d’uomo, scritto da Roberto Camurri e pubblicato da NN Editore nel 2018. Curiosamente, nella quarta di copertina, tra le altre cose, si legge: “Questo libro è per chi ama avvicinarsi ai quadri così da cogliere la consistenza del colore e la direzione del pennello“. Non sappiamo se Hujar si avvicinasse così ai quadri, ma sicuramente si avvicinava così alle persone mentre le ritraeva. Lo ha fatto anche con il ragazzo di questa foto, preso in un primissimo piano che ne esalta le ipnotiche imperfezioni: la palpebra cadente, le basette sfalsate, i capelli in disordine, le macchie sul viso. Anche lui è reduce da un orgasmo.
Forse le imperfezioni sono passeggere, alcune sono già tornate in forma: i denti bianchi e diritti, le labbra piene e sinuose, la lieve inclinazione che il mento assume mentre poggia la testa contro il muro. Soddisfazione, estasi, stanchezza, sollievo: cosa cercava in lui Hujar? Forse aspettava l’istante liminale, quello in cui tutto poteva essere, dove i suoi soggetti tradiscono stati fugaci che sembrano sul punto di mutare, come quando paiono persi nei loro pensieri, o sul punto di scivolare, adagiandosi, in uno stato di contemplazione o coscienza alterata.
Non a caso tra i suoi interessi più ricorrenti c’era quello gli attori e i ballerini dietro le quinte, nei momenti di transizione, quando indossavano i costumi e il trucco solo per metà, preparandosi a incarnare i personaggi che avrebbero interpretato. Non se stessi ma nemmeno qualcun altro. Sono scatti in cui performance e realtà si confondono, in cui la poesia straccia il documentarismo e racconta di un’estetica e controcultura camp e queer che andava delineandosi. Qui non c’è spazio per alcuna indignazione morale, tanto che Hujar sfumava volontariamente le aspettative di genere, celebrando l’irriducibile natura di ognuno ad autodeterminarsi nel dubbio, anche quando irrisolvibile.
Una vena che non si esaurisce nemmeno quando le circostanze portano l’artista a modulare il suo stile. La mostra pratese ripercorre infatti anche i viaggi che Hujar fece in Italia, in diverse occasioni tra gli anni Cinquanta e Sessanta, visitando Firenze, Sperlonga, Palermo e Napoli, per citare solo alcune città. Anche qui la ricerca si indirizza verso i contrasti e le contraddizioni, in questo caso quelle di un paese sospeso tra la bellezza e l’opulenza del suo patrimonio storico e la povertà in cui vive larga parte della popolazione. L’ineluttabilità della morte, la sperimentalità dei ritratti e le ricerche sul movimento emergono a più riprese nelle fotografie scattate presso il sanatorio per bambine e adolescenti a Firenze, nelle immagini di animali e giardini, così come nel corpus fotografico che ritrae giovani bagnanti sugli scogli di Napoli.
In ogni caso, qualunque fosse il luogo dove venivano scattare o il soggetto rappresentato, tutte le opere di Hujar venivano sviluppate da lui stesso in camera oscura. Qui l’artista lavorava attentamente per far emergere i toni medi, la ricchezza e varietà di sfumature di grigio delle sue fotografie in bianco e nero. L’incontro ultimo tra il corpo dell’artista e la sua creazione, un contatto tra dita e pellicola protratto fino all’estremo istante in cui l’opera si consolida nel mondo, dove il suo destino non apparterrà più a chi l’ha generata, ma si perderà nell’imprevedibile del mondo. Come un figlio che hai desiderato, pensato, partorito. E che fatto uomo, se ne va.