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Intervista a Monica Silva: fotografa di ombre, luci e introspezione

Monica Silva nasce e cresce a San Paolo in Brasile. Nel 1986 si trasferisce a Londra per completare gli studi della lingua inglese e poi in Italia dove vive da oltre 35 anni intraprendendo una carriera sfaccettata. Il suo stile distintivo ha subito guadagnato riconoscimenti, portando a collaborazioni con riviste di fama come Max, Style, Dove, Panorama, Icon, Vogue, Vanity Fair, Rolling Stone e molti altri. I suoi ritratti di celebrità, tra cui Paolo Sorrentino e Toni Servillo, hanno ottenuto il plauso della critica. Il suo lavoro è caratterizzato da una miscela unica di maestria tecnica e visione artistica, catturando l’essenza dei suoi soggetti con profondità e sensibilità.

Più guardo le immagini sulle pareti, più noto dettagli che si svelano, come descriveresti la tua fotografia?

Direi coraggiosa, per me è importante provocare riflessioni e in Italia non siamo in molti a farla. Non amo la fotografia solo per un click, quando scatto voglio portare chi osserva a chiedersi cosa significhino alcuni elementi, se è un’immagine vera o generata, come l’ho fatta. Perché per me se non pensi, se non usi il tuo cervello, diventi manipolabile e io faccio fotografia proprio per far sì che le persone ragionino, è un invito ad andare più in profondità. Io poi alla fine fotografo per me, ritraggo il mio mondo interiore. Sai, la fotografia mi ha salvata, quindi se io andassi a favore del pensiero di curatori, critici e galleristi, sarebbe come violare un tempio sacro. E allora non scendo a compromessi. Poi realizzo anche ritratti con cui cerco sempre di rafforzare l’autostima della persona che fotografo, farle capire il suo valore, la sua esperienza, i suoi pensieri, che sono frutto della sua vita vissuta. Anche qui, se non capisci il tuo valore, se non ne sei consapevole, tu e i tuoi pensieri sono manipolabili, e non va bene. Devi fare un lavoro costante di formazione, non è facile.

Quando hai cominciato il tuo periodo di scoperta della fotografia?

Fotografo da sempre, ma è diventata un lavoro nel 2012-13. Quando ancora ero in Brasile la fotografia era già dentro di me, avevo una Polaroid con cui catturavo gli sguardi delle persone ignare che ci fosse qualcuno che li osservava. In quel periodo facevo la modella, ero sempre davanti all’obiettivo e poi quando sono arrivata a Londra ho trovato un’offerta per un pacchetto completo, c’era il corpo della macchina, un 75mm, 135 mm, cavalletto, flash, i filtri, e ho speso tutti i soldi che avevo, sono andata a lavorare in un ristorante per potermi pagare l’affitto per mesi. Lì ho cominciato a fare una cosa che allora era piuttosto strana: mi fotografavo per strada. Ora a ripensarci fa sorridere, mi arrabbiavo perché le persone mi guardavano con aria stranita e passavano davanti alla macchina rovinandomi gli scatti, e ne avevo pochi. Il fatto è che io non sono esistita prima dei 17 anni, non ho mai avuto una foto di me prima di allora. Credo che in quel momento sentivo inconsciamente la necessità di affermare la mia esistenza, di provarla. Penso che ciascuno di noi tramandi le proprie storie personali, anche senza rendersene conto, tutti noi riproponiamo ciò che abbiamo vissuto. Poi ho iniziato ad andare in biblioteca e a studiare la fotografia e la sua storia, a formarmi per poi diventare fotografa.  

Hai iniziato con autoscatti per strada, ora costruisci dei set molto elaborati. Com’è cambiata la tua fotografia?

Non credere, anche allora li costruivo. Ricordo di una volta, era l’88 a Napoli da un’amica, avevo tutti miei strumenti ma non avevo flash con me, allora ho iniziato a prendere tutte le lampade di casa, candele, lenzuoli, un profumo che allora era di moda e delle perle, e ho creato un mini set. Hanno iniziato a chiedermi cosa stessi facendo e perché, e l’unica risposta che sapevo dare era “perché mi piace”. I paesaggi e le ombre sono sempre stati parte di me, e poi li ho sempre ricercati nei miei scatti, per cui mi è sempre interessante osservare e cercare i punti di luce e creare composizioni con essi. Per un po’ ho lavorato in redazioni di magazine, ma è sempre stato difficile trovare il compromesso tra il cliente da soddisfare e la mia creatività, per cui dopo un po’ ho deciso di creare un progetto mio, con uno studio e con le mie luci. È lì che sono emersa come artista perché io ho una fantasia molto spinta, in Brasile si dice “immaginazione fertile”, quando parli ti ascolto, ma la mia testa va da un’altra parte.

Oh, lo capisco molto bene: la mia mente è un po’ un cinema. Sono presente, ma mentre ti ascolto nella mia mente si creano scenari paralleli dove proietto immagini a partire dalle cose che ci stiamo dicendo. È il mio modo di comprendere la realtà, non saprei come altro spiegarlo.

Esattamente, immaginazione fertile! Le mie fotografie ovviamente sono elaborazioni, per esempio, quella foto del progetto Lux et Filum con cui reinterpreto Caravaggio, è un mio sogno dove le religioni condividono un pasto in armonia. Ho notato una cosa ovunque nel mondo: non esiste classe quando sei davanti a un piatto, tutti sono felici, condividono, mangiano e non si preoccupano se sei povero o ricco, senza etichette sociali. Quando ho creato questa foto era un mio desiderio che le religioni si mettessero tutta a tavole, senza conflitti.

Adesso sto notando i dettagli. La Coca-Cola in arabo.

Non lo vedi ma il piatto della Papessa Giovanna è un piatto dorato a forma pesce e richiama Gesù. Mi sono sempre chiesta cosa piaccia al grande pubblico, cosa colpisca una persona, ho studiato molto il comportamento umano. La mia infanzia è stata molto povera, e negli anni ho voluto appropriarmi di tante cose, i miei scatti sono sempre presenti elementi autobiografici. Per esempio, quando ero piccola bevevo una Coca-Cola al giorno altrimenti mi prendevano le convulsioni. Era l’unica cosa che mi calmava, era una ricetta diversa da quella di oggi, chissà cosa c’era dentro. Ad ogni modo, negli anni ho voluto esorcizzare questa cosa della Coca-Cola e noterai quanto è presente nelle mie fotografie. Un altro fantasma che ho affrontato è il fumo, perché da bambina mi seviziavano bruciandomi con le sigarette e io per tanti anni non potevo sopportare che qualcuno si accendesse una sigaretta vicino a me, mi alzavo e me ne andavo.

Cosa è successo poi? Sulle pareti vedo diversi ritratti di persone che fumano.

Ho deciso di farlo diventare parte della mia terapia anche con la fotografia. Guarda bene, tutti i miei smoking shots sono fumi densi, voluminosi, con le luci li rendo parte preponderante dello scatto, perché se deve essere presente allora devo guardare dritto per dritto il mio fantasma perché non mi faccia più male. Il grosso problema è l’insicurezza che non ci permette di affrontare faccia a faccia i nostri fantasmi: per farlo ti devi sedere, guardarli e dire “bene, parliamone, risolviamo i nostri conflitti”. Non mi piaceva scappare dalle persone quando fumavano e questo mi ha aiutato a guardare il mio nemico e plasmarlo, perché solo così non mi poteva fare più male.

C’è stato un momento in cui hai deciso di prendere questo toro per le corna?

Il Ted Talk che ho tenuto nel 2016, dove ho deciso di iniziare a parlare apertamente della mia storia e riconoscermi nella mia storia. Prima di salire su quel palco raccontavo la mia storia in terza persona, come se non stessi parlando di me stessa. Ero stronza con gli altri perché credevo fossero colpevoli del mio duro passato, nessuno era venuto a salvarmi. Devi fare un gran lavoro su te di te per riuscire ad accettarti e dire che vai bene così come sei, e che non devi permettere a nessuno di farti del male. È così: ci fanno del male perché noi lo permettiamo, e perché non capiti devi conoscerti.

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