L’Uomo nel bosco (Miséricorde): il noir autunnale di Alain Guiraudie che ridisegna la morale. Al cinema dal 16 gennaio
“Il cinema non ci dà ciò che desideriamo, ma ci insegna come desiderare“, ha dichiarato Slavoj Žižek in Guida perversa al cinema, e l’opera di Alain Guiraudie (Lo sconosciuto del lago, L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice) sembra essere una delle manifestazioni più lampanti di questo assunto, per lui il medium cinematografico sembra essere uno strumento atto all’esplorazione e alla creazione dei desideri che animano i personaggi e, per estensione, lo spettatore, in una sfida (aperta e sfacciata) alle convenzioni sociali (borghesi e non), invitando a una riflessione profonda (spesso oscura) sulla natura del desiderio stesso.
Con L’Uomo nel bosco (in originale Miséricorde, presentato in anteprima nella scorsa edizione del Festival Cannes, e ora nelle sale italiane dal 16 gennaio), Alain Guiraudie torna così a esplorare i territori che l’hanno reso un autore amato dalla critica: la complessità del desiderio umano come specchio deformante della morale, il desiderio, la solitudine e il mistero delle dinamiche tra le relazioni umane.
Ambientato nel piccolo comune di Saint-Martial, il film segue Jérémy (Félix Kysyl), giovane fornaio disoccupato che ritorna nel suo paese natale per il funerale del suo vecchio datore di lavoro. Quella che sembra essere una breve visita di cortesia però si trasforma presto in un detour in sospeso tra un passato irrisolto e un presente ambiguo, dove nulla è come sembra. Durante il suo soggiorno, Jérémy si confronta con le figure chiave del villaggio: il parroco Jacques Develay (Jean-Louis Coulloc’h), che incarna una religiosità intrisa di malizia e di intrighi luridi e peccaminosi; Vincent (Jean-Baptiste Durand), il figlio del defunto, geloso, represso e violento, per lui il fato non ha in serbo nulla di buono; Pauline (Catherine Frot), la vedova, una donna ambigua, molle ma assertiva, fin dall’inizio forse cova un obiettivo preciso e meschino. Le interazioni tra questi personaggi svelano lentamente una rete di tensioni e misteri che mettono in discussione le convenzioni morali della comunità.
In un’intervista a Cineuropa, Guiraudie ha dichiarato: “Approfondendo il discorso, ho riscoperto come la religione cattolica sia antropofaga“; questa riflessione permea il film attraverso la rappresentazione di una comunità che, sotto una facciata di devozione, nasconde dinamiche di sopraffazione e sacrificio, la religione serve sia da rifugio – e consolazione – che da alibi per desideri e azioni moralmente ambigue (ma anche riprovevoli – omicidi, tradimenti, sesso illecito). Il film si configura come un noir atipico, richiama i classici del genere (Fritz Lang, Hitchcock), ma sovverte le aspettative dello spettatore. L’autunno, con i suoi colori spogli, con le nebbie umide e fosche, riflette il senso di decadenza e isolamento in cui versa il villaggio, una sorta di Brigadoon malsana, lugubre e brumosa. La scelta di evitare flashback e di concentrarsi sul presente amplifica il mistero, lasciando che siano le tensioni tra i personaggi a suggerire un passato mai del tutto svelato.
Guiraudie affronta il desiderio dandogli forme nuove e inaspettate, sottaciute e inespresse, in grado di manifestarsi all’improvviso, ma senza sorpresa, evitando didascalismi e lasciando lo spettatore immerso nelle foschia della suggestione. Il protagonista è al contempo oggetto e soggetto di desiderio, intrappolato in una rete di dinamiche relazionali malate, marce e sgradevoli, che riflettono la fragilità delle connessioni umane.
Come già nei suoi film precedenti, il regista si interroga sul confine tra attrazione e ossessione, tra legittimo e vietato, tra tenerezza e abuso, senza mai offrire risposte definitive. I piani di sovrappongono, i confini di deformano e le forme che siamo soliti attribuire alle relazioni umane prendono nuove sembianze. Il villaggio senza tempo diventa microcosmo e incubatore di ansie umane dove la perdita fa da propulsore alla transizione tra normale a anormale, andata e ritorno, e poi tutto come prima: un luogo in cui i conflitti interiori si riflettono in quelli collettivi.
L’Uomo nel bosco è un film che sfida (e ridisegna) le convenzioni del noir – nel solco della commedia grottesca, tenera e tetra – per esplorare temi oscuri e dai confini incerti, Alain Guiraud, con una regia sobria e impeccabile, quasi scarna, misurata e misteriosa, invita lo spettatore a confrontarsi con le proprie certezze morali, lasciando spazio al dubbio e sfidando l’empatia, dando forma (e sostanza, per quanto intangibile all’apparenza) a un’opera crepuscolare e inquieta, che resta sospesa tra desiderio e rimorso, presenze e assenze.