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Immaginate di entrare in una galleria e trovarvi davanti a una serie di fotografie che sembrano dirvi: “Il lavoro vi sta uccidendo.” Non è una provocazione. È un dato di fatto. Il MAST Photography Grant 2025, curato da Urs Stahel, è un urlo visivo contro l’industria, il capitale, il progresso che spesso ci lascia senza fiato. Qui non troverete romantiche celebrazioni del duro lavoro, ma storie di fallimenti, resistenza, migrazioni forzate e rovina ecologica.
Silvia Rosi usa tessuti wax africani per raccontare le Nana Benz, donne d’affari togolesi che commerciavano stoffe durante la lotta per l’indipendenza. Non solo mercanti, ma spie: nascondevano messaggi segreti tra le trame colorate per sostenere la resistenza. Sì, quelle stoffe che noi occidentali pensiamo siano solo “carine” avevano un ruolo politico devastante. Con ritratti carichi di simbolismo, Rosi ci dice che le donne africane hanno sempre fatto la Storia, anche se nessuno le ascoltava.
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Poi c’è Kai Wasikowski, che ci porta a Canberra per raccontare la vita di sua nonna, immigrata polacca mai riuscita a inserirsi nel mercato del lavoro australiano. Una storia comune a milioni di lavoratori migranti: competenze ignorate, esistenze “fuori posto”. Ma Wasikowski ci ricorda che anche quando sei disoccupato, il lavoro continua — mentale, emotivo, invisibile.
Sheida Soleimani, invece, non si limita a fare foto. Lei cura uccelli feriti. Sì, avete capito bene: uccelli migratori. La sua clinica si chiama Congress of the Birds, un nome poetico per un luogo dove si cerca di riparare ai danni che l’industria infligge alla fauna. I suoi tableaux fotografici intrecciano due storie: quella delle donne iraniane che lottano per libertà e quella degli uccelli che si schiantano contro le vetrate delle nostre città. Il messaggio è chiaro: noi umani siamo diventati una forza distruttiva su scala globale.
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A Lukula, nella Repubblica Democratica del Congo, Gosette Lubondo visita vecchie fabbriche coloniali ormai abbandonate. Con una sensibilità quasi teatrale, mette in scena se stessa e gli ex operai tra rovine industriali, raccontando un tempo sospeso tra liberazione e perdita. È un malinconico canto visivo che parla della resilienza umana anche quando tutto crolla.
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Felicity Hammond chiude il cerchio con Autonomous Body, un progetto che analizza il ciclo produttivo dell’automobile, dalla miniera alla macchina. Cresciuta a Birmingham, cuore dell’industria automobilistica inglese, Hammond ha visto il progresso distruggere vite — incluso un incidente che le ha portato via un amico caro. Le sue sculture dense e stratificate ci dicono che il futuro dell’automobile è un campo di battaglia tra tecnologia e natura, tra progresso e distruzione.
Non fatevi ingannare dalla bellezza delle immagini: questa mostra non vi coccola. Vi urla in faccia che siamo diventati prodotti, consumati dall’industria che ci plasma e ci aliena. Eppure, proprio in queste crepe, gli artisti trovano ancora tracce di umanità, possibilità di riparazione, atti di resistenza. Guardate bene, e immaginate nuove possibilità per sopravvivere.