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L’uomo che si firmava Schultz, a Ca’ Pesaro

Raoul Schultz Calendario, 1963-64 Collage su tela, cm. 70 x 100 Venezia, collezione Tiozzo
Raoul Schultz a Ca’ Pesaro
A volte gli artisti sono esplosioni, e altre volte sono singhiozzi. Raoul Schultz fu entrambe le cose. Nacque nel 1931, su un’isola greca che nessuno si ricorda mai. Un posto con il sole abbacinante e le ombre nette, con il mare che decideva il destino di tutti. Il mare decise il destino di suo padre, un ufficiale di marina, che scomparve in una delle tante voragini che la guerra apriva sulle mappe. Nel 1941 la nave affondò, e Schultz non ebbe più un padre…


Poi c’era Venezia, e Venezia negli anni Cinquanta era un ventre che si gonfiava di idee, di artisti, di teorie strampalate, di cicche di sigaretta schiacciate sotto stivali di cuoio. Venezia era fumo e riflessi e acqua che inghiottiva. Schultz arrivò con una madre vedova e un nome che nessuno sapeva pronunciare bene. Iniziò a disegnare. Disegnava molto, più di quanto mangiasse, più di quanto dormisse. Disegnava cose che nessuno capiva fino in fondo: architetture spezzate, geometrie che si contorcevano, facce che emergevano da un bianco che non era mai davvero bianco.
Prese parte alle collettive della Fondazione Bevilacqua La Masa e dipinse la città come se fosse stata costruita il giorno prima e si stesse ancora assestando. Prospettive curve, Nuove strutture. Cose che nessuno chiamava ancora così, ma che a lui suonavano bene. Studiava la città, la scomponeva. Era un architetto senza cemento.

 

Raoul Schultz, Calendario, 1963-64, Collage su tela, cm. 70 x 100, Venezia, collezione Tiozzo

Poi ci fu il cinema. Perché tutto si muove, e Venezia più di tutto. Perché l’acqua non sta mai ferma, e neanche le immagini dovrebbero. Si mise a lavorare con Tinto Brass, e insieme costruirono scenografie per film che raccontavano la fatica del lavoro e la polvere delle strade. Poi si lasciò prendere dalla mania delle cose piccole, dei dettagli. Prese pezzi di carta, pezzi di parole, e costruì collage che chiamò Calendari e Lettere anonime. Nessuno sapeva se quei messaggi erano per qualcuno o se erano solo il modo di tenere insieme i giorni, di non farli scomparire nel vortice delle calli troppo strette, troppo umide.
Ma poi arrivarono i Sessanta, e l’aria si fece più spessa. Venezia stava cambiando, l’arte stava cambiando. Schultz si ostinava a restare. Ma chi resta troppo a lungo, a volte diventa un’ombra.

 

Raoul Schultz a Ca’ Pesaro

Nel 1971 morì all’improvviso. Niente lunghi addii, niente interviste, niente teorie da esperti che spiegano cosa volesse dire davvero il suo lavoro. Morì e scomparve, come se fosse stato solo un riflesso nei canali.
E adesso eccolo di nuovo. Una mostra a Ca’ Pesaro, una retrospettiva, una selezione di opere che sembrano chiedere: vi ricordate di me? Per anni il suo nome è rimasto sott’acqua, tra le cose dimenticate, ma ora risale a galla. E quando risale qualcosa che pensavi scomparso per sempre, non puoi far altro che guardarlo. E chiederti perché sia rimasto nascosto così a lungo?

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