Un viaggio con Herat De Nicola fondatore della galleria Modernariato De Nicola tra i protagonisti del design storico da collezione, esplorando il dialogo senza tempo tra forma e funzione.

Redazione – Herat, oggi il design da collezione sta conquistando sempre più spazio nelle gallerie e nei musei. Pensi che sia un fenomeno recente?
Herat De Nicola – Non del tutto. È vero che autori contemporanei come Maarten Baas, noto per le sue creazioni che sfidano il concetto di perfezione attraverso bruciature, o Nacho Carbonell, che trasforma il design in sculture organiche che invitano alla fruizione sensoriale, hanno contribuito a rendere il design un protagonista delle gallerie, ma questa affinità tra design e arte ha radici storiche.
Negli anni ’80, per esempio Shiro Kuramata creava arredi come la poltrona Miss Blanche, esempio perfetto della sua ricerca verso la sottrazione e l’immaterialità. La poltrona, realizzata in resina acrilica con fiori inglobati, simboleggia la fusione tra design e poesia, portando il prodotto oltre la funzione, verso il territorio dell’arte.
Ma se andiamo più indietro, pensiamo a figure come Carlo Mollino, che concepiva ogni pezzo di arredo come una scultura funzionale. Le sue opere non erano solo mobili, ma vere e proprie dichiarazioni poetiche in favore di un plasticismo delle forme morbide e seduttive.
Redazione – Ma cosa distingue il design artistico dal design funzionale?
Herat De Nicola – La funzione nel design è una condizione ovvia e imprescindibile, ma nel design artistico parliamo di funzioni ripensate, rielaborate e portate a un livello concettuale più alto, per aprire nuove possibilità che arricchiscano le tipologie con significati inediti. Per lavorare sulle forme devi saper lavorare sulle idee, e alcuni autori, tra i più inquieti ed esplorativi, hanno ridefinito i confini stessi del design attraverso la forza delle loro intuizioni.
Penso prima di tutto a figure come Ettore Sottsass, che ha trasformato il design in una forma di espressione altamente poetica e concettuale. Attraverso l’uso di un repertorio formale arcaico, simbolico e colorato, ha creato oggetti che non si limitano alla funzione tradizionale, ma invitano a riflettere sulle ritualità e i valori emotivi che costruiamo attorno agli oggetti quotidiani.

Volendo declinare al femminile la stessa propensione a frequentare territori di confine, il mio pensiero va a Nanda Vigo, le cui opere, dai celebri specchi ai corpi illuminanti, non erano semplici oggetti funzionali, ma veri e propri esperimenti sensoriali. Il potenziale espressivo della luce, al centro della sua ricerca, diventava un mezzo per ridefinire lo spazio e la percezione, trasformando gli ambienti in esperienze immersive e poetiche.
Quindi il valore di utilità svolto da figure come queste risiede nella loro capacità di trasformare gli oggetti in veicoli di emozioni e significati più profondi per chi li vive.
Redazione – Questa trasversalità la vedi più come un lascito di singoli o qualcosa di più diffuso e condiviso del nostro Paese?
Herat De Nicola – Diciamo che l’Italia ha sempre mostrato una straordinaria disponibilità a far dialogare il design con l’arte, un’attitudine che attraversa il Paese. Questa propensione è stata incarnata da figure chiave che hanno fatto da catalizzatori, generando pratiche largamente condivise sui propri territori.
A Milano penso ad Alessandro Mendini, figura emblematica del design milanese, che con le sue opere ha trasformato oggetti di uso quotidiano in vere e proprie dichiarazioni artistiche.

Mendini ha saputo fondere tradizione e avanguardia, lavorando su un linguaggio capace di coniugare memoria storica e provocazione estetica, portando il design verso nuove dimensioni espressive. Ma tutto questo era l’evoluzione naturale di un approccio interdisciplinare e sperimentale che a Milano è stato messo a battesimo da Gio Ponti.

Al tempo stesso, penso a Riccardo Dalisi, che al Sud ha portato il design in dialogo con l’artigianato e la cultura popolare. Le sue opere non solo raccontano storie legate alle tradizioni locali, ma sperimentano forme e materiali, dando nuova vita agli oggetti più semplici.
Il contributo di Dalisi va ben oltre i suoi oggetti. È nel suo approccio al design, che mescolava sperimentazione e attenzione per il sociale, che risiede il suo lascito più significativo. Coinvolgendo artigiani locali e comunità emarginate, Dalisi ha dimostrato che il design può essere un atto di inclusione e narrazione collettiva. Pensiamo, per esempio, ai troni realizzati durante l’esperienza di riqualificazione del Rione Traiano a Napoli, dove il design è diventato uno strumento di riscatto sociale e identità condivisa.

A riprova di questa diffusa comunione d’intenti, pensiamo al lavoro di Enzo Mari, che nel Nord Italia ha incarnato una visione del design profondamente radicata nella cultura del fare. Con la sua celebre serie di mobili in autoprogettazione, Mari non solo ha sfidato i limiti tra progetto e produzione, ma ha anche proposto un modello di design democratico, accessibile e profondamente radicato nella partecipazione diretta dell’utente al processo creativo.
Da Nord a Sud, il design italiano ha sempre avuto la capacità di andare oltre il semplice perfezionamento di una disciplina, trasformandosi in un linguaggio che racconta storie, culture e visioni differenti.
Redazione – Quali autori, nella loro trasversalità, pensi meritino di essere maggiormente riscoperti o valorizzati?

Herat De Nicola – Come collezionista, mi verrebbe da citare Urano Palma, una figura affascinante e ancora in attesa del giusto riconoscimento. Palma è uno scultore-designer che ha saputo trasformare oggetti d’uso in opere che sembrano misteriosi dispositivi per antiche ritualità, enigmatici manufatti da cui si sprigiona una natura primordiale.
Penso, ad esempio, alla sua Poltrona Scultura del ’74, che non è semplicemente una seduta, ma un luogo simbolico, capace di evocare memorie arcaiche e riflessioni contemporanee. È un’opera che sembra aspettare di essere vissuta e interpretata, un invito silenzioso a ristabilire il dialogo tra l’uomo, la materia e il tempo.
Pensando alla trasversalità tra arte e design, mi viene in mente Mario Ceroli, un autore conosciuto soprattutto per la sua opera nel movimento Arte Povera, ma che ha anche esplorato il mondo del design con una visione unica, ancora poco conosciuta. Ceroli ha trasformato materiali semplici come il legno in un linguaggio visivo potentemente espressivo, caratterizzato da forme nette, sagome teatrali e una forte carica simbolica.
Pezzi come il suo celebre Letto Bocca della Verità per Poltronova non sono solo mobili, ma vere e proprie scenografie abitabili, dove la funzione si arricchisce di significati narrativi, evocando un immaginario che mescola storia, mito e contemporaneità.

Redazione – Il pubblico è sempre stato pronto a recepire queste innovazioni?
Herat De Nicola – Non sempre, ma forse questo non è così importante, perché il valore delle innovazioni spesso non risiede nell’immediato consenso, ma nella capacità di lasciare un’impronta, di tracciare un nuovo percorso. Le idee rivoluzionarie spesso creano smarrimento, ed è proprio in quel momento che si apre la possibilità di ridefinire il tempo presente. Il design, come ogni forma d’arte, non deve solo piacere: deve sfidare, interrogare e aprire nuove prospettive.
Redazione – Come gallerista, che messaggio vuoi trasmettere attraverso Modernariato De Nicola?
Herat De Nicola – Il design storico è parte della nostra memoria culturale. Ogni pezzo è un frammento di un secolo straordinario, il ‘900, in cui la parola ‘progetto’ era lo specchio di un’arte del Saper Fare e del Saper Pensare, capace di imprimersi profondamente nell’immaginario collettivo, anche oltre i confini nazionali.
Attraverso il mio lavoro voglio far comprendere che collezionare design non è solo una scelta estetica o economica, ma un atto di cura verso il passato, affinché continui a essere una fonte viva di identità e ispirazione, da far consapevolmente evolvere.
Modernariato De Nicola:
Via Mosé Bianchi, 2 – 20149 Milano
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modernariatodenicola.com
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