Print Friendly and PDF

Vedere l’invisibile. Giorgio Griffa a Genova

Giorgio Griffa, Obliquo, 1976, acrylic on canvas, 104x141cm, courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph Federico Rizzo
Giorgio Griffa, Dipingere l’invisibile, installation view, courtesy Palazzo Ducale Genova
L’attesa era quella delle grandi occasioni, d’altronde non capita tutti i giorni che Palazzo Ducale apra l’appartamento del Doge a un contemporaneo come Griffa. Ma ora che è finita, e che la mostra “Dipingere l’invisibile” non ha più segreti, ne sarà valsa la pena? Super spoiler: si.

Fa notizia già solo così: Giorgio Griffa a Palazzo Ducale di Genova. Finalmente il protagonista di una mostra al Ducale si può auto-presentare nella sala del Minor Consiglio, per poi portare tutti a fare un giro della sua Dipingere l’invisibile. Non servirebbe nemmeno aggiungere l’entusiasmo del presidente Beppe Costa – «Palazzo Ducale è aperto a tutte le forme d’arte, contemporanea, antica», è talmente fresca la querelle con Gabriella Airaldi sul Secolo XIX (oggetto del contendere il presunto provincialismo culturale di una Genova “ossessionata” da Van Dyck, ndr) che un’ultima frecciatina perché non tirarla? – o di Lorenza Rosso, assessore alla Cultura del Comune di Genova. Rosso che come tutti gli assessori accumula stress, solo che lei non lo scarica facendo yoga, ma immergendosi nella «Luce e colore» di questa mostra. Griffa contro il logorio della vita moderna, ma perché no.

Giorgio Griffa, Dipingere l’invisibile, installation view, courtesy Palazzo Ducale Genova

E dire che lui, Griffa, si dichiara «Pittore tradizionale», che non ha mai fatto «Una scelta tra figurativo e astratto», nemmeno nel 1948, quando una personalità come Palmiro Togliatti lanciò parole di fuoco contro l’astrazione. Ciò che invece si dice di lui, chiedete a Ilaria Bonacossa (nella doppia veste di direttrice e co-curatrice della mostra assieme a Sébastien Delot), è che «A parlare con Griffa ci si sente ignoranti»: assolutamente vero. Bonacossa che pare sempre più acclimatarsi in quel del Ducale, consapevole di aver messo in piedi «Un’avventura» nell’ospitare in loco il maestro torinese, portando «Una mostra di contemporaneo nell’appartamento del Doge» e, al contempo, un artista «Capace di parlare a chi non sa di arte contemporanea». Solo che le orecchie sono genovesi e, pur senza voler alimentare i preconcetti in canna a un non autoctono (romano) ivi trapiantato, è davvero “lo scopriremo solo vivendo” moment. E poi, in attesa – e nella speranza – d’essere smentito dai numeri, ci sono sempre i turisti, bontà loro. Comunque, per tutti – genovesi, non genovesi e ivi trapiantati col vizio dei preconcetti – un consiglio per fruire al meglio questa mostra: il silenzio. Garantisce Giorgio Griffa.

Giorgio Griffa, Dipingere l’invisibile, installation view, courtesy Palazzo Ducale Genova

E luce fu. Luce naturale, dalle finestre aperte per l’occasione dopo più di vent’anni. E bianco, tanto bianco per i pannelli, scelta cromatica che ti fa pensare una cosa sola: al Ducale qualcosa è cambiato. Un ordine tematico in favore del cronologico, scenario complessivo user friendly e sporgenze ridotte ai sottilissimi chiodini che reggono le tele: l’understatement metà sabaudo (di padre) e metà ligure (di madre) di Griffa non è “una” firma, ma “la” firma. Ritmo (spoiler: è una delle sezioni) e ragionamento sono quelle qualità d’artista perfettamente interpretate dalla curatela, mai sopra le righe per scelta, disposizione e contestualizzazione dei pezzi, tra introduzioni di sala prive di sbrodolature lessicali, didascalie chiare e descrizioni delle opere calibrate. E poi ci siamo noi (e una folla di altre persone, sì va bene), con Griffa davanti all’imponente Trittico orizzontale del 1996 a dirci che «Il lavoro vive come una persona». Perciò, qualora un soggetto x avesse piacere d’intelaiare il tutto, nessun problema: l’opera non perderebbe i suoi connotati. Griffa parla di «Principio di dominazione», che l’essere umano applica a tutto, materiali pittorici compresi. Ma quelli sono elementi vivi e, semmai, collaborativi con l’artista. Grazie Griffa, perché qualora al sottoscritto dovesse capitare nuovamente d’incrociare sue opere sotto plexiglass (fuori dal Ducale succedono cose brutte: è il collezionismo bellezza), lo farà almeno a cuor leggero.

Nomini Griffa e non puoi non pensare ai Segni primari, un po’ il grado zero dell’epopea griffiana. Una serie e una sezione di cui ci è impossibile non menzionare due Obliquo del 1968, tele (intelaiate) 20×20, ma ancor più quattro stupende chine su carta misura 6×6 centimetri: la pittura, quando non è improvvisata, anche nella sua versione più appuntata e asciutta possibile sa dare spettacolo. Una versione che certo non è quella in gran spolvero espositivo nei 116×390 cm di Matisseria n.2, dove l’influenza armonico-mediterranea di Matisse chiede altre metrature per altre lavorazioni. Per un’altra ritmica del segno in sé e del segno applicato al colore, che assume una funzione molto più suggestionante e suggestiva. Vi siete già dimenticati quando Griffa ha detto di non aver mai scelto tra figurativo e astratto? Bene, questo è il momento giusto per ricordarselo, tenendo presente un dettaglio che non è proprio un dettaglio in questo caso: «Lavoro con materiali diversi perché ho suggestioni diverse», così parlò Griffa.

Giorgio Griffa, Matisseria n.2, 1984, acrylic on canvas, 116×390 cm, courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph Federico Rizzo

Delle altre sezioni, quella dedicata al Ritmo offre la grande parete dei Sessanta frammenti, già passati per Genova alla Samangallery di Ida Gianelli nel 1980: possono essere allestiti a piacimento, restituendo l’opera dell’artista come qualcosa di estremamente presente al di là dell’artista stesso. E in una pittura di elementi vivi come quella di Griffa non solo ciò ha ancora più senso, un po’ come i fatidici segni che si creano piegando le tele, ma è anche il lancio per un Non finito cui giustamente si è scelto d’intitolare una sezione. «Omettere il punto finale che colloca la frase ne passato» non è solo il pensiero d’artista che la introduce, ma quello che pone la pittura in una condizione di apertura rispetto al dato momento. Sarà per questo che un’opera come Obliquo del 1976, tra le più belle in mostra a mani basse, porta con così tanta disinvoltura i suoi 49 anni?

Giorgio Griffa, Obliquo, 1976, acrylic on canvas, 104x141cm, courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph Federico Rizzo

O sarà che il Disordine è solo una forma d’ordine non prestabilita. Una variabile portata avanti come un processo lento e preciso, dove l’artista prende la tela, la stende a terra, si leva le scarpe e seduto su una sedia inizia a dipingere Disordine IR, studiando le proprie mosse pennellata dopo pennellata. Potremmo anche solo immaginare una scena del genere, soprattutto dopo aver sentito Griffa dire che nei suoi lavori «Il primo segno è arbitrario», coi successivi gestiti uno in conseguenza dell’altro: bozzetti non ne fa, e anche quando gli è capitato di appuntare qualcosa poi è andato da tutt’altra parte. L’immaginazione però la lasciamo lavorare in altre occasioni, visto che Bonacossa e Delot ci hanno risparmiato questa fatica: tutto è bello e pronto in un apposito video, 9 minuti tra pittura impressa e suonata (l’audio è parte fondamentale oltre che in quota decisamente ASMR) in cui l’artista più zen del creato celebra la pittura con la ritualità di una cerimonia del tè giapponese. L’esperienza in sé vale il prezzo del biglietto, tuttavia non è ancora completa. Il tuffo al cuore infatti è là dietro l’angolo: trovarsi di fronte a Disordine IR in tela e acrilico, magari riconoscendo quelle gocce intorno a una campitura rosa dopo averle viste nascere. Grazie Griffa, in chiusura ci consenta solo una raccomandazione: continui a dipingere quell’invisibile di cui non sappiamo mai di avere bisogno.

Commenta con Facebook