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“Aerolectics”, la prima italiana di Belinda Kazeem-Kamiński

Belinda Kazeem-Kamiński, Untitled (Prototype Nkisi/Repurposed Savings Box), 2025 Courtesy the artist Foto Ivo Corrà
Belinda Kazeem-Kamiński 2023 © Lea Sonderegger.
Prelevate con forza. Comprate, trapiantate e convertite con il solo pretesto di “salvare le loro anime”. Ma salvarle da cosa? Dal fatto di essere vittime, innocenti e incoscienti, di un “missionario sistema cattolico di deportazione evangelica”?! 

È una tempesta di rabbia, orrore e desiderio di giustizia quella che si percepisce sin dall’ingresso al Kunst Meran di Merano, dove la prima personale in Italia di Belinda Kazeem-Kamiński si fa luce – rischiaratrice e riparatrice – di una storia che, seppur sotto differenti spoglie, ancor oggi persiste. Che ancor oggi richiede una profonda e viscerale attenzione.

Aerolectics, questo il titolo della mostra – a cura di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi che si rifà al concetto di “Tidalectics” quale modalità ciclica e ondosa di pensiero che l’artista individua come mezzo di lavoro per esplorare la storia delle bambine e dei bambini africani evangelizzati forzatamente è un sistema missionario di metà Ottocento.

Quale esito di un’approfondita ricerca, infatti, la mostra, racconta la storia di una fanciulla sudanese di nome Asue* (l’asterisco indica l’assenza della trasposizione Italiana del Suo nome dall’arabo originale) acquistata dal sacerdote Niccolò Olivieri al Cairo e portata – a forza – nel convento delle Orsoline di Brunico l’11 gennaio 1855, insieme ad (almeno!) altre due ragazze, Gambra* e Schiama*.

Qui, le tre giovani furono battezzate in un rito al limite tra il pubblico e il privato, ma mentre le altre due bimbe sembravano “adattarsi” alla vita monastica, Asue* veniva considerata dalle suore come un’indomabile e indomita “tempesta”. Proprio quella tempesta che Belinda Kazeem-Kamiński ha deciso di ricreare tra le pareti del Kunst Meran di Merano. Come vento di dolore e giustizia, essa s’innesta, si radica e diffonde tra le pareti del museo per scardinare con forza la “superiorità” di un’Europa che, nel suo fare e pensare, ha miseramente fallito. 

Perché quando sono le dinamiche di potere a determinare le percezioni di paesaggi, società e persone, è necessario ripensare le geografie, sia fisiche che concettuali. Ed è proprio dal contrasto tra terre e destini che l’artista ribalta la percezione postcoloniale di superiorità del continente europeo: a partire infatti dal concetto di Linea Insubrica – punto, sulla superficie terrestre, che è esito della “sfida” tra la placca europea e quella africana –  l’artista correla uno scontro geologico ad uno culturale, ideologico e sociale; una “lotta” il cui racconto di sopravvivenza e rinnovamento è affidato alle forze della natura (quali roccia, acqua, fuoco e aria).

A partire dunque dalla roccia – rievocata dall’installazione Vermessung. “Von der Landschaft aus” (2025), esposta al primo piano del Museo – dei frammenti di mappe storiche rappresentati territori dell’Impero Asburgico, dell’Alto Adige e dell’Italia sono trafitti da spilli che mostrano i luoghi in cui le ragazze africane sono state prelevate dal sacerdote Olivieri e dalla sua rete di intermediari. 

Belinda Kazeem-Kamiński, Vermessung. “Von der Landschaft aus”, 2025. Courtesy the artist. Foto Ivo Corrà

Realizzando mappature alternative, l’artista enfatizza lo sradicamento, la migrazione forzata e l’integrazione coatta di cui sono stati responsabili i religiosi missionari. Un concetto, quello di “forzata unione”, presente anche nell’installazione video Rub, Rock, Earth. Throat Clearing (2025), in cui due corpi si muovono in cerchio, spingendosi e premendosi l’uno contro l’altro, tanto da “plasmare” una topografia di tensione e cambiamento costante. 

Le loro interazioni generano attrito, dando vita all’atmosfera che trascina lo spettatore nella storia di Asume*. Fin dall’inizio però l’attenzione si sposta sulla voce narrante che accompagna il video: è l’artista stessa che, rivolgendosi alle Alpi come stratificazione di storia, sottolinea quanto siano i “sedimenti” a plasmare tanto la terra quanto e la società. 

Belinda Kazeem-Kamiński, Rub, Rock, Earth. Throat Clearing, 2025. Courtesy the artist. Foto Ivo Corrà

Quella terra e quella società che obbligarono al battesimo forzato le tre ragazzine africane per salvare le loro anime dalla presunta contaminazione morale. E nell’installazione video Nursery Rhymes. (Holy) Water (2025) sono proprio le giovani a domandarsi – in una tetra e melanconica filastrocca – “Quali peccati, ci chiediamo? Cosa abbiamo fatto?”, sottolineando la loro riluttanza alla situazione continente con un ritmico battito di mani e sguardi imperturbati. Un video girato in 16 mm che invita a riflettere sulle modalità attraverso cui il suono e l’immagine plasano la comprensione del passato, mettendo in discussione sia il ruolo della fotografia come strumento coloniale e mezzo di documentazione, sia l’assenza di registrazioni visive delle ragazze, al di là dei rapporti missionari unilaterali. 

Quei rapporti missionari per i quali, nelle chiese cattoliche della zona, si raccoglievano offerte in appositi salvadanai – come quello presente in mostra e intitolato Untitled (Prototype Nkisi/Repurposed Savings Box) – al cui interno era presente una figura nera inginocchiata che, una volta inserita la moneta, chinava il capo in segno di sottomissione e gratitudine. Il salvadanaio è stato poi riadattato dall’artista e trasformato in un Nkisi, statua in legno trafitta da chiodi e lame, appartenne alla tradizione spirituale congolese quale fonte di protezione, guarigione e giustizia. 

Belinda Kazeem-Kamiński, Untitled (Prototype Nkisi/Repurposed Savings Box), 2025. Courtesy the artist. Foto Ivo Corrà

Posto su un basamento neutro, ma nascosto dietro un rosso vetro opaco, lo Nkisi costringe i visitatori a chinare il capo per essere osservato, facendo così riflettere sulle esistenti aspettative di “visualizzazione”. Il guardare infatti non è neutro ma sempre caratterizzato da un sapere sedimentato, da storia interiorizzate – e interiorizzante – di cui spesso ci si dimentica. Perché come affermano i curatori, “chi da bambino ha gettato monete dentro queste scatole potrebbe percepire uno stimolo alla memoria muscolare: un leggero movimento della mano – da parte di chi osserva – come cenno di risposta atteso. Ma ora quel cenno si è fortunatamente fermato, il meccanismo è stato interrotto”.

Perché gli Nkisi non sono oggetti passivi, ma guardano, ascoltano e attendono. Reinterpretati in una prospettiva diasporica come sentinelle e vendicatori, sono stati anche installati dall’artista su una superficie specchiante che ne riflette la rinnovata forma: realizzata in collaborazione con Masimba Hwati – artista multidisciplinare che vive a Vienna – un esercito di Nkisi è stato ricreato in argilla, un materiale plasmato dalla terra, dall’acqua, dal fuoco e dall’aria – elementi cardine della mostra. Perché è vero l’argilla è fragile ma è al contempo robusta. È incline a rompersi eppure in grado di durare per secoli. E quei chiodi incastonati nei Nkisi stanno proprio ad indicare la memoria di quegli oltre mille bambini africani rapiti – da Nicolò Olivieri e dal suo successore Biagio Verri – le cui assenze, ma simultanee presenza, sono moltiplicate nel tempo e nello spazio grazie allo specchio su cui saldamente poggiano.

Belinda Kazeem-Kamiński, Untitled (Lash. Linger. Load/Nkisi), 2025. Courtesy the artist. Foto Ivo Corrà

Delle anime, dunque, per le quali il desiderio di giustizia si fa fuoco e tempesta, proprio come appare nel video Ọya! Fire, in cui una figura – impersonificante la divinità Yoruba delle tempeste e metamorfosi – indossa una fluente maschera in rafia e, con i suoi movimenti vorticosi e indomiti, riempie la scena di grida penetranti, riferendosi sia alla storia di Asume* e alla sua indomabilità, sia scardinando lo stereotipo della “donna nera arrabbiata” come sì combattiva, ma al contempo maleducata e aggressiva. Perché se per le religiose del Convento delle Orsoline gli sfoghi della ragazza erano inaccettabili, Ọya! Fire presenta invece la rabbia come un sentimento di positiva ribellione e trasformativa visione.

Belinda Kazeem-Kamiński, Dancing Mask, 2025. Courtesy the artist. Foto Ivo Corrà

In conclusione del percorso espositivo, Kazeem-Kamiński invita i visitatori a entrare nel backstage della mostra, in cui la documentazione e il materiale d’archivio illustrano il contesto che si cela dietro le opere esposte, rivelandone gli stratificati processi di approfondimento, indagine e interpretazione.

Facendo riferimento all’approccio della studiosa afroamericana Hartman – e resistendo all’impulso di colmare le lacune d’archivio – Collocation No.1 (2025) è un elenco compilato dalla storica tedesca Ute Kueppers-Braun in modo meticolosamente strutturato che contiene i nomi delle ragazze americane rapite da missionari portati in Europa. 

È un lavoro quest’ultimo dedicato all’elemento dell’aria. Alla potenza e alla forza di quell’aria – o meglio, di quella tempesta – che da sola è riuscita a smuovere ciò che per secoli è stato nascosto, ma che, soprattutto ora, richiede una profonda e viscerale attenzione.

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