
In un mondo in cui ogni esperienza deve essere documentata, fotografata, condivisa, anche l’arte è diventata sfondo. Ma cosa accade quando il desiderio di un ricordo perfetto si scontra con la fragilità del patrimonio culturale? Sempre più spesso, musei e gallerie fanno i conti con opere danneggiate – o distrutte – da visitatori troppo concentrati sul selfie e troppo poco sull’opera stessa
È accaduto di nuovo, questa volta al Palazzo Maffei di Verona, dove una coppia in visita ha finito per danneggiare gravemente la “Sedia Van Gogh”, un’opera dell’artista Nicola Bolla, interamente rivestita di cristalli Swarovski. Il video diffuso dal museo mostra l’uomo mentre si prepara a scattarsi una foto: finge di sedersi sulla sedia, ma perde l’equilibrio, cade e frantuma l’opera sotto il proprio peso. I due si allontanano in fretta, senza avvisare il personale. L’incidente, avvenuto ad aprile, è stato reso pubblico solo il 12 giugno. Le autorità sono al lavoro per identificarli.

“Certo, è stato un incidente – ha dichiarato la direttrice Vanessa Carlon – ma andarsene in silenzio lo trasforma in qualcosa di più grave. Per un museo, è un incubo.”
La sedia distrutta è solo una delle creazioni visionarie di Nicola Bolla, artista torinese noto per le sue opere lucenti e concettualmente provocatorie. Il suo celebre teschio di Swarovski, realizzato nel 1997, denunciava la superficialità del consumismo ben prima che Damien Hirst lanciasse il suo più noto teschio di diamanti.
Ma il selfie distruttivo non è un episodio isolato. Nel 2014, a Milano, un ragazzo è saltato in braccio al Satiro Ubriaco, nella Gypsoteca dell’Accademia di Brera, per scattarsi una foto. Il risultato: una gamba spezzata. Il danno fu contenuto solo grazie a un restauro già previsto.
Nel 2015, due giovani si arrampicarono sulla statua dei due Ercole sotto la Loggia dei Militi a Cremona per un autoscatto “memorabile”. La bravata danneggiò entrambe le statue e lo stemma cittadino tra di loro.
Nel 2016, al Museo Nazionale di Arte Antica di Lisbona, un visitatore brasiliano causò la caduta della statua di San Michele, mentre tentava di immortalarsi con essa.
Il 2017 è stato un anno particolarmente prolifico di incidenti legati ai selfie: a Washington, durante una mostra di Yayoi Kusama, un Instagrammer ha perso l’equilibrio nella stanza degli Infinity Mirrors, colpendo una delle celebri zucche dell’artista. Danno lieve, ma una folla di curiosi è accorsa dopo che la notizia ha fatto il giro del web. A Los Angeles, una donna ha causato 200mila dollari di danni urtando, mentre si stava scattando una foto, una fila di piedistalli con corone preziose, generando un crollo a catena.

Nel 2020, al Museo Canova di Possagno, un turista austriaco si è seduto sul gesso originale della Paolina Borghese per farsi un selfie: ha spezzato alcune dita del piede della statua e poi si è dato alla fuga, naturalmente ripreso dalle telecamere.
In tutti questi casi, il filo conduttore è uno: l’urgenza di trasformare l’arte in un trofeo fotografico personale, spesso senza comprenderne né il valore né la fragilità.
E allora la domanda diventa inevitabile: è davvero necessario distruggere un’opera d’arte per portare a casa un ricordo effimero? Un’immagine digitale, che forse sarà l’unica memoria di quell’opera… Proprio perché quell’opera, dopo quel gesto, potrebbe non esistere più.
In un’epoca in cui il valore della bellezza sembra misurarsi in like, vale la pena chiederci: quanto siamo disposti a sacrificare per un selfie? E soprattutto, perché?














