
Nel cuore della Catalogna, tra le luci soffuse del Museu Nacional d’Art de Catalunya (MNAC) di Barcellona, i visitatori restano incantati davanti a frammenti di affreschi medievali. Ma dietro la bellezza senza tempo dei murales di Sijena si cela una vicenda controversa che infiamma tribunali, politici e amanti dell’arte da decenni.
La Corte Suprema spagnola ha messo il punto: i murales devono tornare a casa, nel Monastero di Sijena in Aragona, dove furono creati intorno al 1200. Una sentenza storica, che imponeva la restituzione entro il 25 giugno 2025. Ma oggi, a oltre un mese dalla scadenza, quei capolavori sono ancora a Barcellona. Perché?
Perché il MNAC prende tempo. Chiede garanzie sulla sicurezza del sito che li ospiterà, solleva dubbi sulla fragilità delle opere, evoca gli standard europei di conservazione. La restituzione, sostengono, potrebbe danneggiare irreparabilmente i preziosi affreschi. E il monastero, aggiungono, non offre ancora tutte le condizioni adeguate per il loro ritorno.
Il Governo dell’Aragona ribatte: negli ultimi anni sono stati investiti oltre 1,2 milioni di euro per restaurare l’edificio e installare un sistema di climatizzazione all’altezza dei più moderni musei. Il Comune di Sijena, intanto, si dice pronto ad accogliere le opere anche in una sede alternativa, pur di riaverle.

I murales, definiti la “Cappella Sistina del romanico”, sono tra le testimonianze più affascinanti dell’arte medievale spagnola. Realizzati nella sala capitolare del Monastero di Villanueva de Sijena, narrano scene bibliche con uno stile che fonde miniature inglesi, influenze bizantine e motivi decorativi romanici.
Nel 1936, però, la Guerra Civile cambiò tutto: il monastero fu incendiato e devastato. I colori si spensero sotto le fiamme, il soffitto mudéjar andò perduto, e gran parte degli affreschi fu gravemente danneggiata. Solo un arco, protetto al momento del rogo, conserva ancora oggi i pigmenti originali nella loro intensità.
Pochi mesi dopo, una squadra di restauratori trasferì ciò che restava a Barcellona, dove il MNAC li installò definitivamente nel 1961, ricostruendo alcune parti sulla base di fotografie pre-belliche.
“Fu un’operazione di salvataggio, non di saccheggio”, spiega Marisancho Menjon, ex direttrice del patrimonio aragonese e autrice di un libro sulla vicenda. Ma sottolinea anche quanto la perdita di Sijena abbia colpito profondamente la memoria collettiva dell’Aragona. “Siamo stati dipinti come contadini ignoranti, incapaci di proteggere il nostro tesoro”.
E in effetti, il tema è diventato simbolico e politico. Il leader del movimento Sijena Sí, Juan Yzuel, non ha dubbi: “È una questione di giustizia e dignità. Non siamo una colonia, ma veniamo trattati come tali. La nostra cultura non può restare ostaggio dei grandi musei”.
Sul caso pesa anche lo spettro della tensione tra la Catalogna e il governo centrale spagnolo. Josep Maria Cruset, deputato catalano, ha definito la richiesta aragonese come un attacco politico: “I tentacoli del nazionalismo spagnolo vogliono umiliare la Catalogna”, ha dichiarato a El País, denunciando un intento più simbolico che culturale.

Il MNAC ribadisce di aver acquisito gli affreschi in modo legale da suore del monastero. Ma i giudici hanno stabilito che le monache non erano titolari legittime dei beni, annullando la vendita.
Dal 2015, la disputa è approdata in tribunale, tra ricorsi e contro-ricorsi. Ora, la Suprema Corte ha scritto la parola fine: i murales devono tornare a Sijena.
Ma resta un dubbio cruciale: come conciliare la tutela del patrimonio con il rispetto della sua storia e della sua identità? Il viaggio di ritorno dei murales non è solo un “trasloco artistico”. È un atto di memoria, giustizia e riconciliazione. Sempre che quel viaggio, prima o poi, cominci davvero…














