
The Strange Life of Things [La strana vita delle cose] è la prima grande monografica italiana dedicata all’artista, nata a Cosenza nel 1968
Una delle dicotomie fondati del pensiero occidentale è la distinzione tra soggetto e oggetto. La netta separazione tra l’essere umano e il mondo delle cose postulata da questa nozione, nella riflessione speculativa ha relegato l’universo materiale a semplice supporto della soggettività pensante e a sfondo inerte dell’agire umano. In controtendenza rispetto a tale visione binaria, filosofi come Bruno Latour hanno proposto di abbandonare l’opposizione tra questi due ambiti a favore di una visione meno antropocentrica, riconoscendo negli oggetti una forma di agency, una capacità di influenzare e modificare le reti di relazioni in cui sono inseriti.
In quest’ottica, l’idea di “multiverso” elaborata dal filosofo francese ci parla di mondi stratificati, che si compongono e ricompongono incessantemente, dove temporalità non lineari coesistono come nei ricordi o nei sogni. Questa base teorica è l’humus su cui si sviluppa l’universo creativo di Tatiana Trouvé, protagonista a Palazzo Grassi della mostra The Strange Life of Things [La strana vita delle cose], concepita come carte blanche dalla Pinault Collection. Si tratta della prima grande monografica italiana dedicata all’artista, nata a Cosenza nel 1968, cresciuta in Senegal, in seguito trasferitasi a Parigi per poi stabilirsi a Montreuil, dove attualmente vive e lavora.
L’esposizione, curata da Caroline Bourgeois e James Lingwood, riunisce un corpus di opere che comprende sculture site-specific, lavori della serie The Guardians, una selezione di grandi disegni appartenenti al ciclo Les Dessouvenus e settanta opere su carta mai esposte prima, provenienti dallo studio dell’artista. Il percorso espositivo si configura come un labirinto di spazi fisici e immaginari in cui opere inedite e datate rimodellano la percezione dell’architettura del palazzo veneziano disseminandolo di intercapedini scultoree e grafiche, che l’artista chiama “intermondi”, protese a esplorare con il loro sviluppo nello spazio il confine tra visibile e invisibile, presenza e assenza, memoria e proiezione.

Il principio dell’allestimento è quello di creare un macro ambiente integrato, in cui la contiguità delle singole opere esposte diventa continuità strutturale e sintattica. In questa sorta di paratassi generativa, che si sviluppa all’intersezione tra la dimensione architettonica e quella scultorea, si realizza anche un’osmosi tra la collezione permanente – che conta oltre venti opere dell’artista accumulate in più di quindici anni – e le nuove produzioni realizzate per questo progetto. Il primo incontro di François Pinault con l’opera di Tatiana Trouvé risale a una visita nel suo studio avvenuta nel 2010, quando lavorava in un vecchio magazzino ubicato nella stazione in disuso di Pantin, un sobborgo vicino a Parigi.
Il magnate francese, la cui collezione vanta oltre diecimila opere di arte contemporanea datate dagli anni Sessanta a oggi, poté vedere in quel luogo per lei seminale, ancora ingombro di cavi e metalli, come gli elementi di risulta del vecchio magazzino non si potessero quasi distinguere dalla produzione ancora in divenire dell’artista. Proprio a partire da quello spazio reale in stato di abbandono, infatti, Tatiana Trouvé ha elaborato l’universo creativo e il linguaggio che tutt’ora impronta la sua prassi, in quel primo momento concentrata sul calco scultoreo degli oggetti preesistenti del suo studio.
Avvalendosi di varie modalità espressive, l’artista nelle sculture e nei disegni ancora oggi continua a riprodurre un vasto repertorio di cose, perlopiù ordinarie, come rocce e fiori, valigie e scarpe, lucchetti e chiavi, radio e registratori, coperte e libri, per costruire assemblaggi disorientanti e ipnotici, evocativi di stadi liminali della coscienza, come la memoria e il dormiveglia. Attraverso un vasto repertorio di tecniche, tra cui la colata, la fusione, la sbiancatura, il disegno, l’intaglio, la filettatura e a un’ampia gamma di materiali, che va dall’asfalto al marmo, dal bronzo alla canapa, dal vetro agli specchi, Trouvé traduce in materia e immagine l’essenza poetica di questi oggetti sospesi o posati a terra come se fossero in transito, talvolta accorpandoli in organismi (da lei definiti “ecosistemi”) installati in situ che rispecchiano ancora una volta il carattere provvisorio e non finito delle loro matrici ideali, gli scarti produttivi ed edilizi dello studio a Pantin.
Fin dall’ingresso il visitatore è invitato a immergersi in un dispositivo concettuale che trasforma l’atrio di Palazzo Grassi in una costellazione visiva: un pavimento di asfalto, sovrapposto a quello marmoreo originale, in cui sono incorporati chiusini di pietra e metallo, insieme a elementi tipici del paesaggio urbano come strisce pedonali e lastre metalliche, ma anche anonimi rifiuti metropolitani, come sacchetti, lattine schiacciate o bottigliette di plastica. Questi inserti oggettuali sono calchi, fusi in metalli diversi, di oggetti reali da lei recuperati in varie città del mondo, come Parigi, Londra, Roma, Venezia e New York, riproposti in una versione assottigliata e tendente alla bidimensionalità grafica.

Osservata dal piano superiore, questa grande installazione site-specific (intitolata Hors-sol, 2025) si rivela come una mappa cosmologica che connette il sopra e il sotto, l’interno e l’esterno, in una dialettica spaziale riconducibile al pensiero architettonico e urbanistico di Ugo La Pietra e alla sua ricerca sul disequilibrio generativo di microspazi di rottura che modificano il rapporto tra l’opera e lo spettatore. Si prosegue ai piani superiori con una concatenazione, esponenziale nonostante l’assetto minimale, di lavori scultorei che, sovrapposti o messi in relazione reciproca, generano sistemi intercomunicanti che risultano autosufficienti rispetto allo sguardo e alla comprensione umana, a cui pur ammiccano insidiandosi in scala antropomorfica nel punto di convergenza tra memoria e immaginazione.
Alcune sculture si configurano come assemblaggi leggeri, memori dell’essenzialità formale di classici storicizzati come Alexander Calder e Fausto Melotti, in cui ricorre l’idea dell’essere appesi, dello scivolare, dell’inclinarsi, del piegarsi, dello srotolarsi, in un precario equilibrio che sembra sul punto di cedere ma viene contrastato dalla segreta tenacia del metallo di cui sono fatti. Altre installazioni evocano rifugi di senzatetto o trincee di soldati, con materassi, ripari di cartone e coperte a terra (sempre fusioni in lega). Le impunture e le cuciture dei finti tessuti evocano primordiali cartografie del disorientamento, mentre le riproduzioni dei libri inseriti come pietre angolari in queste composizioni, leggibili come rielaborazioni del classico modulo minimalista, appaiono come elementi che raffreddano con la loro staticità le composizioni, a cui conferiscono una patina concettuale che si deposita nel pensiero come se fosse una velatura pittorica.
In questo continuum di installazioni, che si snoda in tutte le sale del palazzo, appare sospesa una dimensione temporale incerta, evocativa di una fisarmonica di mondi spaziali e mentali in cui, come dichiarato dall’artista, tutti i componenti “si connettono tra loro attraverso affinità, echi, reminiscenze, disegnando attraverso questi rapporti un vagabondaggio condiviso, senza origine né fine, in un ecosistema completamente aperto“. In tale prospettiva, la ricerca sulla forma generativa che prolifera nello spazio si carica dell’inquietudine di ciò che, pur immobile, vibra di potenzialità. Nella ricchezza materica mimetizzata in questa sorta di planimetrie tridimensionali, le schermature visive e fisiche si rivelano a un’attenzione prolungata come condotti e porosità, come luoghi di osmosi percettiva in cui la presenza ovattata e sibillina degli oggetti abita lo spazio con tutta la resistenza della loro anima metallica, pur nella consunzione vera o emulata.

La trasfigurazione operata con colta eleganza dall’artista su questi reperti del quotidiano risulta così avvincente non tanto per la fascinazione per il vissuto di cui racchiudono le tracce, quanto piuttosto per la materializzazione, di matrice astratta e compositiva, di una narrazione che sembra procedere in virtù dell’autonomia della propria stessa sintassi, secondo un meccanismo che nella sua apparente impermeabilità rispetto alle influenze esterne ricorda la funambolica narrativa del romanzo strutturalista francese, in primo luogo quella di Alain Robbe-Grillet.
Nel tentativo di decifrare questo inafferrabile plot, lo sguardo è indotto a soffermarsi con voyeuristico piacere su ogni dettaglio, sorprendendosi a poco a poco per l’illusionistica complementarietà tra la connotazione pittorica superficiale delle sculture e la qualità scultorea che espande i disegni oltre la bidimensionalità. In questa compresenza si viene a creare uno spiazzante corto circuito tra la finzionalità ambigua degli oggetti, ingannevoli nel mistificare visivamente i loro materiali costitutivi, e la concretezza fisica delle installazioni. In alcuni elementi la consistenza e l’arrotondamento formale dichiarano apertamente la natura di copia, conferendo loro un’ambiguità di matrice surrealista; in altri, come nei fiori secchi o nelle scorze d’arancia, si stenta a credere nell’artificialità, tanto da suscitare il desiderio di una verifica tattile.
Gli oggetti, quando non sono incardinati in articolati assemblaggi de-funzionalizzanti, hanno diverse modalità di apparizione e presentazione. In primo luogo sono collocati come snodi di transizione tra l’ambientazione museale (già di per sé duplice nell’innesto della sua identità contemporanea di sede espositiva nell’architettura settecentesca) e quello immaginifico dell’artista. A quest’ambito di intermediazione afferiscono le sculture della serie The Guardians, distribuite in ciascuna sala di Palazzo Grassi in modo da evocare le sedie dei custodi. Si tratta di calchi di vere sedie su cui sono accumulati e legati calchi di oggetti di varia natura, come cuscini (in cui le venature marmoree lasciate a vista evocano gli umori di cui sono intrise le federe molto usate), borse, indumenti sgualciti, fiori secchi, libri-lapide, giornali, scarpe démodé.

Gli esseri umani sono i grandi assenti dall’opera di Trouvé, benché l’eco della loro presenza sia ovunque: l’artista attraverso la strategia del calco mimetico sceglie di replicare oggetti fragili, soffici e deperibili legati alle nostre azioni corporee, di cui conservano le impronte. In questa tipologia di opere l’artista, enfatizzando con i materiali il carattere nascosto degli oggetti ordinari di cui realizza il calco, conferisce loro una nuova, inquietante visibilità, tramutandoli in un’accattivante trappola visiva, che funziona alla perfezione nonostante (o grazie) all’esibizione della loro mediocrità. Al contempo, questi “guardiani” si relazionano con l’architettura reale segnalando un fantasmatico spazio di attesa, ingannevole anticamera dell’opera che, quasi a tradimento, ci ha già avvinghiati nel suo raggio d’azione.
Su un diverso piano espressivo si pongono le “collane” della serie Città (2024), composte dalla fedele riproduzione in bronzo, rame o alluminio di elementi eterogenei raccolti dall’artista durante i suoi viaggi e legati assieme da fili come se fossero perle. Capsule argentate, copie di quelle usate per il metadone a New York, fiori, rami, insetti, conchiglie, accendini, elastici – tutti elementi arenati, persi, buttati o donati dall’ambiente – vengono elevati a ornamenti preziosi attraverso un processo di nobilitazione materica e formale. Su un diverso piano ancora si pone l’archivio dell’artista, allestimento intitolato L’inventario (2003-2024) che occupa una piccola sala del piano superiore, basato sul magazzino situato nel seminterrato dell’atelier di Trouvé a Montreuil. Qui gli oggetti più disparati (ça va sans dire, sono tutti calchi, perlopiù in bronzo, questa volta ancora in attesa delle patine camaleontiche da cui sarà trasfigurato) sono suddivisi per tipologia e allineati su mensole in finto cartone: ancora borse di pelle, accendini, fiori secchi, radioline, telefoni, macchine fotografiche, lattine.
Il fatto che la naturale cromia di questa lega metallica, riservata fin dall’antichità alle sculture più ricercate, sia lasciata a vista, inscrive questa stanza-magazzino (una sorta di versione miniaturizzata dei capannoni tra cui si sposta in bicicletta Anselm Kiefer nel recente film di Wim Wenders) in una riflessione meta-scultorea incentrata sul lessico stesso dell’artista e sul suo approccio alla pratica scultorea. Ma anche qui l’accumulo e la classificazione dell’armamentario dei suoi ricorrenti attrezzi visivi in un locale che simula ambiguamente una reale officina artistica, nel momento stesso in cui sembra dichiararsi in maniera tautologica, sta mistificando un fondamentale slittamento tra il piano finzionale dell’opera, questa volta intesa nel suo complesso, e la realtà oggettiva dei suoi elementi costitutivi.
Seppure più prevedibili rispetto alle conturbanti declinazioni precedenti, queste ultime due accezioni dell’oggetto (Città e L’inventario) sono molto utili per penetrare le logiche su cui si fondano anche gli altri lavori. Completano questo excursus i disegni, realizzati in bianco e nero su fondi monocromi e caratterizzati da una cifra stilistica equivoca tra la progettazione architettonica in prospettiva, l’abbozzo e il frottage. Nel nitore generale dell’impianto grafico, le incongruenze logiche degli accostamenti tra elementi di per sé irrelati si riorganizzano in un’impossibile continuità, delineando scenari astratti in cui la natura sembra prendere il sopravvento sulla civiltà urbanizzata.

I disegni, inoltre, diffrangono lo spazio all’infinito richiamando e scandendo su differenti piani mentali elementi che trovano una precisa corrispondenza fisica in alcune installazioni, potenziando in questa complessa rete di rimandi tra bidimensionalità e tridimensionalità quel senso di straniamento, tensione e instabilità che permea l’intera mostra.
Nell’esperienza di questa visita non si finisce mai di guardare: c’è sempre un ulteriore pertugio in cui insinuare lo sguardo, una linea strutturale che ipotizza narrazioni, un filo logico misterioso di collegamento tra un’opera e l’altra. Tutta l’esposizione è legata agli spostamenti e alle trasformazioni che permettono a ciò che esiste in uno stato latente di ricomparire altrove, in modo diverso, in un flusso continuo di traslazioni la cui ciclicità, su un piano metafisico, richiama il pensiero di Deleuze secondo cui “solo gli organismi muoiono, mai la vita1″. In questo gioco di associazioni psichiche in deroga alle leggi fisiche, Tatiana Trouvé ci invita a riconoscere e abitare l’inconscio proprio degli spazi, a percepire quella “strana vita delle cose” menzionata nel titolo che nella nostra percezione quotidiana rimane sottotraccia.
Come già anticipato, più che insistere sugli aspetti legati alle stratificazioni di memoria implicite negli oggetti, è interessante sottolineare come l’artista, nel tentativo di dare forma alla scomparsa in accezione scultorea, pittorica e compositiva, elabori contraddittorie tecniche di orientamento per generare un universo dove la coesistenza di possibilità umane e non umane ridiscute in maniera convincente e peculiare il confine tra soggetto e oggetto, tra visibile e invisibile, tra realtà e immaginario. E Palazzo Grassi, per le sue dimensioni e per le variegate possibilità di articolazione spaziale offerte dalla sua struttura, si dimostra il luogo ideale per manifestare in modo eclatante quest’aspetto centrale della sua poetica, inevitabilmente destinato a rimanere accessorio in spazi espositivi meno ampi e interessanti.
1 G. Deleuze, Sulla filosofia, in Pourparler, trad. di Stefano Verdicchio, Quodlibet, Macerata 200, p.190














