
Colore, luce e sfumature sono protagonisti del più recente ciclo di opere di Grimaldi, in mostra a Milano
Fino all’8 novembre il pittore Marco Grimaldi è protagonista della mostra Conversazione, alla Nuova Galleria Morone di Milano. Curata da Matteo Galbiati, l’esposizione presenta il più recente ciclo di opere dell’artista. Caratterizzato da un’esplorazione del colore, della luce e delle sfumature in chiave più intima e meditativa. Ce ne parla Grimaldi in questa intervista…
Allora Marco, cominciamo questa conversazione dalle Conversazioni che esponi alla Nuova Galleria Morone di Milano. Spero mi sia perdonato il gioco di parole, ma questo ciclo di opere è il tuo più recente, se non sbaglio, si tratta di installazioni di due grandi tele in cui dialogano diverse altezze cromatiche e intensità luminose. Quella del dittico è una soluzione da te adottata più volte, cosa ti spinge a lavorare con questa modalità?
Questi quadri nascono di ritorno da una vacanza in Alto Adige, nei giorni trascorsi in questo territorio la cosa che mi aveva colpito di più era il biancore della luce, una luminosità che irradiava il paesaggio e rimbalzava sui muri bianchi delle case. Di ritorno, ho dipinto il primo lavoro, anche se non mi piaceva mi prendeva molto la luce che emanava, ho capito che questa sorta di “affermazione” aveva bisogno di una risposta immediata che mettesse in crisi quel senso di armonia che si leggeva nel lavoro, qualcosa che conversasse, che portasse il mio occhio a navigare continuamente con questi ritmi carichi di “inciampi”.
La tua pittura, che tu più volte hai definito “fatta di niente” è in realtà una raffinatissima stesura di velature attraversate da saettanti episodi segnici e da pulsanti bagliori, una modalità che esprimi in modo più incisivo e drammatico nei disegni e nelle opere grafiche, si può dire che esiste, anche qui un dialogo incrociato tra strutturazione del disegno e costruzione del dipinto?
Credo di sì, anche perché più passa il tempo e più mi accorgo che non dipingo quadri ma faccio grandi disegni su tela. La mia difficoltà è trovare lo spazio giusto su cui costruire i miei segni, fatto questo comincio lavorando con la testa completamente vuota, procedo giorno per giorno disegnando con il bianco le strutture luminose, mi perdo continuamente per ritrovarmi alla fine è il quadro che mi sveglia dicendomi che non ha più bisogno di me.

Il compianto Claudio Cerritelli (Roccaraso, 1953 – Milano, 2024) sottolineava il volto fantasmatico della tua pittura, caratteristica che lui riteneva: “legata all’ineffabile vaghezza della luce, al lento rivelarsi del colore che si nutre di silenzio e meditazione, contemplazione di pensieri in attesa dell’ignoto” (C. Cerritelli, 202). Questa inafferrabilità della forma, al limite tra campitura e figura astratta che io chiamai “fata”, è, insomma, una trasfigurazione della datità oggettiva o una digressione necessaria per avviare l’oggetto ad un’esperienza estetica più ampia?
Come ho sempre detto, dipingo una luce che ho visto, non perché sono un eletto illuminato, ma qualcosa che guardando mi colpisce assumendo un forte significato, queste immagini poi si depositano, vengono dimenticate, riaffiorano da sole e le riscopro dopo aver dipinto una serie di quadri nuovi. Non ci pensavo, sono riapparse da sole. Credo dunque di sentirmi vicino a tutte le due opzioni.
Il tuo lavoro mi pare si basi su una ferrea disciplina pittorica, nella logica di riflessione sul linguaggio, come ha ancora una volta ha intuito Cerritelli, nella possibilità di superare il rigore sistematico del processo attraverso una epifania luministica che risolve la regola strutturale del rapporto dialettico tra rigidità del segno e sfondo. Voglio dire, come procede il tuo lavoro che, a me sembra, di sintesi?
Te l’ho detto, sento la necessità di affrontare una serie di lavori dopo averli attentamente studiati disegnati, da lì si parte, la difficoltà per me è sempre creare il territorio, lo spazio, l’ambiente entro cui prendono vita i miei segni, se sbaglio quello non posso procedere.

Per concludere Marco, prima di chiederti una riflessione in merito, perdonami ancora una volta una considerazione. Indubbiamente, negli ultimi anni, la pittura in Italia ha avuto una sorta di rigenerazione, mi riferisco a mostre compilative come “Pittura Italiana Oggi” (Triennale di Milano, ottobre 2023 – febbraio 2024) che, a mio avviso, orecchiano le più determinati rassegne come, per l’appunto, Painting today (T. Godfrey, 2010), ebbene da questa tendenza sembrano tagliate fuori quelle espressioni più radicali, ma non per questo meno degne di attenzione. Sto parlando di quelle espressioni che spesso vengono tacciate di vuoto edonismo ricreativo, faccio un esempio: Franco Fanelli in conclusione di un suo articolo ne “Il giornale dell’arte” sulla pittrice etiope Julie Mehreteu evoca tale problema con queste parole: “eleganti soluzioni formali per un’arte, come quella astratta, che salvo rari casi non ha mai disturbato nessuno, almeno da quasi un secolo a questa parte” (F. Fanelli, in “Il giornale dell’arte”, anno XLII, N. 453, settembre 2024, p. 21), ti chiedo, pertanto, se invece non sia, come intuì Filiberto Menna: “[…] che il soggetto di cui si parla e che parla questa pittura è un “soggetto nascosto”, che si sottrae al superfluo per cogliere, attraverso tracce e segni minimi, il momento di germinazione della pòiesis”, sarebbe a dire non è che invece questo soggetto “disturbante” maturi proprio dentro la pratica pittorica stessa?
Sono pienamente d’accordo con tutto quello che affermi, e credo che questo porti anche alla distinzione tra ciò che è pittura e ciò che è immagine.













