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Genova, il mare e Moby Dick: una balena a Palazzo Ducale

Moby Dick - La Balena, installation view, courtesy Palazzo Ducale Genova
Pino Pascali, (Polignano a Mare 1935 – Roma 1968), Ricostruzione della balena, 1966, tela bianca grezza dipinta di bianco e vinavil su centine di legno, 100 x 366 x 90 cm, Collezione Luigi e Peppino Agrati – Intesa Sanpaolo, Crediti: Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / foto Maurizio Tosto
La leggendaria creatura descritta da Herman Melville diventa protagonista di una grande mostra al Ducale di Genova. Un’avventura formato famiglia, tra colpi di scena e colpi di coda

Iniziare con gli interventi istituzionali è una consuetudine che una mostra come Moby Dick – La Balena, a cura di Ilaria Bonacossa e Marina Avio Estrada con Michela Murialdo, permetterebbe di bypassare. Se solo chi scrive non fosse troppo metodico per cambiare l’ordine delle cose. Per non parlare della new entry Sara Armella, fresca presidente di Palazzo Ducale che, a vederla e sentirla, ricorda quelle figure mitiche, quelle dalla preparazione direttamente proporzionale alla perfezione del tailleur che indossano. Un po’ Marisa Bellisario, un po’ Palma Bucarelli e un po’ tutto quello che in questi tempi di empowerment femminile – pieni di ideologie e vuoti di contenuti – si è perso. Armella, non prima di aver dato il merito dell’evento al precedente direttivo, ci presenta una mostra «Pensata per tutti, per chi ama l’arte, per studiosi, studenti e famiglie». Famiglie come quella di un piccolo Giacomo Montanari, quando ancora non era un millennial, ma solo un bambino di terza elementare concentrato sul romanzo di Herman Melville, «Il primo vero libro che ho letto» racconta. E prima di diventare l’assessore alla cultura del Comune di Genova che è oggi, che correda il suo discorso con considerazioni quali «Fare cultura significa offrire opportunità a vari livelli» e «Ci vogliamo prendere cura dei nostri cittadini». Prevediamo mesi duri per la sorveglianza nell’Appartamento del Doge.

Carsten Höller, Red Walrus, 2011, Red-tinted soft polyurethane, blue glass eyes, giraffe tail hair, 35 x 110 x 50 cm, Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Collection, Photo: Alessandro Zambianchi | Courtesy the artist, © Bildrecht, Vienna (2025)

Parte bene chi parte alla rovescia: l’entrata è dove per solito si trova l’uscita dell’Appartamento, attenzione. E si parte da una grande assente: la Balena Giuseppina, il cartone animato anni ’80 di cui forse solo il sottoscritto ha memoria, ma che in un contesto melting pot – o “melting pop” – come quello perseguito da questo progetto avrebbe avuto il suo perché. Poi magari si è solo persa in mezzo agli innumerevoli oggetti della fascinosa Stanza del collezionista, tra memorabilia a tema come un paio di Topolino (prezzo 25 lire), giochi in scatola, una VHS con Gregory Peck nei panni di Achab, stampe incorniciate e tanto altro. Di sicuro Giuseppina non c’era prima, tra un’anti-didascalica cancellatura di Emilio Isgrò, la ricostruzione di una capanna Inuit formata da tre costole di cetaceo di Claudia Losi e il realismo poetico di Alberto Tadiello, che all’interno della Cappella focalizza un punto fondamentale: anche le balene parlano. Ma nemmeno dopo, tra il biblico Giona in un frammento di pluteo della prima metà del 1200, stilosi corsetti con stecche di balena provenienti da Palazzo Bianco (digressione: questa mostra deve la sua varietà ai numerosi prestiti provenienti dalla rete museale genovese, così come da realtà extraterritoriali, tra cui il Museo delle Civiltà di Roma o l’Opificio delle Pietre dure di Firenze), un’iconica presenza per Marzia Migliora (iconica solo per non dire che Prey meriterebbe una trattazione a sé) e una tassonomia consapevolmente interventista di Mark Dion.

Clara Hastrup, Fishphonics: Accelerando, 2024, glass acquariums, tropical fish (molly, platy, guppy), electronics, led lights, alto diatonic and chromatic half xylophone, alto diatonic and chromatic half metallophone, spotlights, tambourines, microphone stands, microphones, speakers, audio mixer, Dimensioni varibili. Photo Credits Luisa Porta, Courtesy of MATTA

Migliora e Dion sono lo switch, con cui questa mostra passa da una modalità documentativa a una nettamente più socio-riflessiva (di modalità ne ha volutamente molte: è pensata per tutti o no?). Modalità che prosegue con la stupenda serie d’immagini di Janina Tschape, e nella lotta tra capodoglio, calamaro gigante e bottiglietta di plastica di Francesco Jodice. E impariamo che si può riflettere anche in maniera molto più “colorata” con A Constructed WorldThe last whale painting non è solo un lavoro pensato ad hoc per l’occasione, ma l’occasione d’inserire il pubblico direttamente nella riflessione stessa: ci sono le scalette pro-selfie.

La sala con i “pesci suonatori” di Clara Hastrup – che ci perdonerà per il virgolettato con cui si è scelto di semplificare un lavoro ben più complesso – catalizzerà grandi e piccini. Sicuro più delle teche che contengono oggetti di design: la coppa a forma di coda di balena (o il contrario?) di Fausto Melotti è di un valore indiscutibile, come il servizio da tè in ceramica di Albisola e tutti gli altri pezzi presenti, ma una scelta espositiva così astraente risulta un po’ sottotono nell’insieme della mostra. Diciamo che ne comprendiamo la scelta, senza apprezzarla, soprattutto dopo essere stati liberi di sbattere la testa negli arpioni di Elisabetta Benassi, o inciampare nel rossissimo e paciosissimo tricheco di Carsten Höller.

Janaína Tschäpe, Dormant (Bellidea), 2016, Injekt on paper, 86.3 x 101.6 cm, TBA21 Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Collection, Photo: Courtesy the artist

In un romanzo ben scritto i colpi di scena sono calibrati. E pure in questa mostra, dove d’un tratto ti ritrovi Moby Dick a sguazzare nel contemporaneo storicizzato. La bianchezza della balena è una sezione che si apre a varie letture sul bianco, intrecciando direttamente le pagine di Melville e collegando un’ipertrofica Ricostruzione della balena di Pino Pascali («La prima opera selezionata per la mostra» racconta Bonacossa) ad altri storicizzati, provenienti dalla collezione del Museo di Villa Croce, con nomi del calibro di ManzoniSimetiBonalumi e Dadamaino (quella china rossa su tela bianca è un colpo da maestro). Tra i non storicizzati, occhio alla Paola Pivi di One love: osservare i suoi animali albini, raggruppati in un contesto bucolico, è un faccia a faccia coi concetti di omologazione e diversità perfetto per tutta la famiglia, figli compresi.

Moby Dick – La Balena, installation view, courtesy Palazzo Ducale Genova

Un tuffo nell’oceano, dopo peripezie di cui non racconteremo per rovinarvi l’avventura, ci sta. Cambio d’habitat: l’uomo l’ha fin qui studiata sulla terraferma, ora è Moby Dick a portarlo nel suo mondo con Wu TsangOf Whale è un’installazione video che, utilizzando una realtà virtuale variata in tempo reale, crea l’esperienza di un oceano vissuto da dentro, in un inversione di ruoli che inverte anche tutta la narrazione melvilliana. Pure questa piacerà ai più, anche se – come per altre installazioni presenti – per viverla bene è necessario passare parecchio tempo in sala. D’altronde è il mood complessivo della mostra ad essere impostato su un tempo “romanzato”, decisamente più fluido del normale. Del tipo sai quando entri e non quando esci. E ogni tanto va bene che sia così.

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