
Da qualche tempo, passando per Piazza San Marco dopo il tramonto, sembra che qualcuno stia cercando di comunicare con noi, attraverso qualcosa che viene dall’alto. Dal 21 novembre 2025 al 1 marzo 2026, infatti, la piazza brillerà in un modo che non le apparteneva da secoli, come se avesse accumulato luce negli anni e adesso avesse deciso di liberarla tutta in una volta. La chiamano “Murano Illumina il Mondo”, ed è già alla terza edizione, ma lo dicono con quella voce finta-sorprendersi che usano i veneziani quando succede qualcosa che in realtà aspettavano da mesi.
La verità è che nessuno si sorprende davvero. Perché quando dodici artisti internazionali arrivano a braccetto con le fornaci più ostinate dell’isola, allora sì, qualcosa succede. Una combustione lenta. Il vetro che tutti fingiamo di conoscere ma non conosciamo affatto torna a parlare sotto le Procuratie Vecchie. Non dice parole, ovviamente, ma quello che dice, lo dice brillando.
Così Simone Crestani ha deciso di far crescere un ramo fiorito dentro la struttura del lampadario, come se la natura avesse deciso di appropriarsene. Lo ha chiamato Primavera d’Oriente, e anche se nessuno lo dice, tutti ci vedono un essere vivente, qualcosa che potrebbe continuare a svilupparsi anche dopo la fine della mostra.
Ru Xiao Fan, invece, ha portato una gabbia. Dentro, alcuni uccelli restano. Altri scappano. Si chiama Intérieur/Extérieur e sta sospesa lì, a ricordarci che la libertà è una storia complicata, specialmente in una città che vive da mille anni chiusa e insieme aperta al mondo.
Joana Vasconcelos ci ha messo un cuore, un cuore Infinito che pulsa come se avesse una sua agenda, come se ascoltasse la piazza e ci battesse contro. È difficile non fermarsi. È difficile non pensare che qualcuno ci stia osservando dall’interno di quel cuore.

Lucio Bubacco, invece, ha chiamato a raccolta cinquanta angeli. Cinquanta. E li ha messi a suonare strumenti di vetro su trenta bracci, una specie di orchestra celeste che sale verso l’alto. L’ha chiamata Musica Angelica. Se ti metti sotto e guardi verso il centro, ti sembra davvero che qualcosa di sacro possa succedere da un momento all’altro.
E così via: i dischi fluidi e minimali di Chahan Minassian, le maree trasformate in trama di luce da Michela Cattai e Simone Cenedese, il sole imprigionato nel vortice lagunare di F. Taylor Colantonio, il Calamaro di Micheluzzi che sembra agitarsi anche se non lo fa, le uova luminose di Christian Pellizzari create in collaborazione con la Galerie Negropontes (Parigi e Venezia), sospese tra tecnica antica e LED sottilissimi, le piccole lune costruite da Irene Cattaneo, e il lampadario corale della Scuola Abate Zanetti, un Life’s Meaning fatto di foglie blu che sembrano volerci spiegare qualcosa sulla continuità della vita. Tutto sospeso. Tutto fragile. Tutto ostinato.

E mentre cammini lì sotto, ti accorgi che non è solo una mostra. È una complessa alleanza: Comune, Glass Week, Camera di Commercio, Musei Civici, Fondazione Cini, Pentagram Stiftung, e chissà quanti altri enti che normalmente comunicano solo tramite carte bollate. Perfino Caffè Lavena ci ha messo il nome e in questa città, dove un caffè può costare quanto un libro, significa partecipare in modo quasi sacrale.
In questo nostro mondo contemporaneo in cui la luce arriva da schermi piatti e da dispositivi che si aggiornano da soli. Eppure basta mettere dodici lampadari nati da mani vere, fuoco vero, fiato vero, sotto una piazza che è sopravvissuta a tutto, per accorgersi che l’illuminazione può ancora essere un atto poetico. A volte basta accendere qualcosa che non si era mai visto prima. A volte basta guardare in su.













