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TEMPO DI BILANCI, ANNUS VENETIARUM?

2011. Anno di “(padiglioni) Italia da sconforto”, “poverismi” e “transavanguardie”, il 2011. La metafora artistica sembra aderire in modo del tutto calzante al sentire e al vivere comune peninsulare.

Fra i festeggiamenti del 150° dall’Unità non ci siamo risparmiati nulla nel campo dell’arte, connesso, quanto mai prima d’ora, alle vicende di una politica malferma nelle sue prerogative. Ed è proprio in chiusura di celebrazioni, che dobbiamo assistere impotenti al finale di partita, il vergognoso teatrino dei nostri “rappresentanti”, che si agitano solo per mantenere quei privilegi da straccioni che i loro assai più indigenti concittadini sono invece disposti (o costretti) a perdere per il bene comune.

Questo, tuttavia, è anno anche di qualche inaspettato e positivo cambiamento di vertice.

Sia nella politica sia nella cultura, qualche premio raggiunse anche il “meritevole”, alla faccia di coloro che fecero carte false per intorbidare le acque del contendere. Ed è quest’aspetto beneaugurante che è necessario illuminare.

In politica, si può dire che soltanto il recuperato onore di fronte al consesso internazionale (e magari anche quel po’ di orgoglio necessario per tener testa alle bastonate entro e fuor di confine) è già di per sé buona notizia, cui manca solo una previsione di futuro meno fosca di quella che ci si para innanzi per avere il gloria completo dell’in excelsis deo. Ma la musica pare cambiata in più di un Municipio.

In ambito culturale, qualche sasso è stato levato dalla scarpa, non senza polemiche, non senza mugugni. Ma, si sa, l’Italia è l’Italia e gli Italiani sono immediatamente dimentichi di coloro contro i quali lanciavano monetine sino al giorno prima (disciplina olimpionica, ormai) o che, soltanto ieri pomeriggio, esaltavano in fasti proconsolari.

Emblema di questa possibile rinascita nel “fare” del volgo italico potrebbe essere Venezia, cittadina apparentemente relegata alla sua sorte da bio-parco per indolenti flâneurs, in realtà inaspettatamente prodromica a sommesse piccole rivoluzioni di portata più vasta dell’ambito culturale cui pertengono.

Non potendo evitare il roboante frastuono del Vittorio nazionale alle vernici biennaliere, l’armata brancaleone in laguna, già ad Aprile, assiste a una degradazione del proprio duce, definitivamente allontanato dalla sedia di Soprintendente al polo museale veneziano per lui confezionata su misura dal Ministro della Cultura più inefficace fra tutti i suoi non fulminei predecessori. Un ingresso a gamba tesa in area di rigore dell’ex governatore veneto Galan al dicastero di via del Collegio Romano impedisce all’arbitrio di diventare norma e riporta un poco di ordine (e di legalità) in quello che pareva diventato un campo giochi per politici di scarsa tacca.

Sempre in territorio biennalesco, Paolo Baratta, eccellente presidente al secondo mandato (il primo dal 1998 al 2000), uomo di banche, ferrovie e sviluppo, ex-ministro alle Partecipazioni Statali, al Commercio Estero e all’Industria, indi all’Ambiente e ai Lavori Pubblici, a furor di popolo viene reintegrato al suo posto di massimo dirigente della Fondazione veneziana, da cui era stato scalzato dal pur ottimo Giulio Malgara (commerciale di Quaker Oats Italia e poi Chiari & Forti, indi AD Chiari & Forti e ancora AD Quaker Chiari & Forti, indi presidente di Malgara Chiari & Forti; fondatore di AUDITEL proprio quella, ecc. ecc.). Anzi, ancor meglio: è lo stesso Malgara a declinare l’offerta già garantita del Ministero e, con gesto in Italia più unico che raro, a cedere il passo a chi risulta al momento più gradito. Anche in questo caso il Ministro Galan, che fortemente volle l’avvicendamento, si fece infine promotore dell’atto senza precedenti, permettendo al buon senso, per una volta, di trionfare. Mentre l’incontinente Sgarbi battezza, non richiesto, Baratta e Malgara come “incompetenti”, talché uno vale l’altro… bontà sua.

E infine, ancor più importante per la vita quotidiana del piccolo e fastoso capoluogo veneto, ha termine fra pochi clamori e moltissimi sospiri di sollievo un potentato culturale originatosi oltre trent’anni fa con i “tetrarchi” Cacciari-Folin-Romanelli-Dal Co (tutti acquartierati ab ovo presso lo IUAV), che occupò più che plausibilmente, data la dimensione cittadina e la caratura dei personaggi, ogni settore dell’industria didattico-culturale della Città.

A capo del sistema museale cittadino era in sella fino all’altrioieri il “doge” Giandomenico Romanelli, studioso della venezianità (o “venetità”, come accidenti si dice) classica (dal Tintoretto al Canova), il quale con sistematica applicazione e rara pervicacia rese immobile e provinciale l’accidentalmente dinamico e internazionale sistema dei Musei Veneziani, passato sotto di lui a Fondazione. Per causa della sua lenta guida e del suo poco invidiabile talento per imporre dirigenze e consulenze di scarsa qualità e mandare a remengo con nonchalanceproficue collaborazioni internazionali, si spensero via via le sedi espositive di Palazzo Ducale e del Correr, di Ca’ Pesaro e di Ca’ Mocenigo (la nobilissima collezione di tessuti antichi, di cui tutti i manuali e gli studi del campo in ogni idioma scrivono meraviglie, è quasi del tutto inaccessibile), Ca’ Rezzonico (poco frequentata anche se oggetto di preziose donazioni che ne arricchirono in questi anni la già notevole quadreria di arte veneziana e veneta) e Ca’ Fortuny (la magnifica, che se non fosse per quel “diavolo” di fiammingo che nell’ultimo lustro le diede un po’ di colore, non vedrebbe più pubblico, dovendo confidare su quei tre appuntamenti l’anno appaltati alla consueta formula salva-musei di mostre chiavi in mano).

Defunge anche il povero Museo del Vetro a Murano che dovrebbe essere meta di pellegrinaggi deferenti da tutto il mondo e fucina di studiosi, specialisti e nuovi talenti ; per non parlare del romitorio intellettuale in cui è confinato il buranese Museo del Merletto, di cui pochissimi conoscono l’esistenza.

Si salva il Museo di Storia Naturale al Fontego dei Turchi, ma solo perché in questo caso la collaborazione privata sia in termini di risorse economiche sia di contributo scientifico ha sopperito abbondantemente negli anni all’indifferenza dell’Ente e del suo Direttore.

Ma anche le altre importanti realtà culturali veneziane hanno sofferto durante questi lunghi anni di smantellamento della coscienza storica del patrimonio culturale cittadino.

La Fondazione Querini Stampalia, privata, sì, ma dipendente da un circuito civico che le fece sempre da traino, sede di interessanti convegni e qualificate mostre sul Genio Veneziano oggi deserta lei e deserti i magnifici silenti suoi giardini scarpiani, dopo che un suo Direttore, Giorgio Busetto, fu inviso al sommo pontefice della cultura cittadina. Ma anche il Museo Archeologico, che risentì di sponda della desolazione del polo museale di Piazza San Marco, di cui per anni si favoleggiò in infinite argomentazioni, dibattiti, seminari, botta-e-risposta fra maggiorenti di varia e colorita e nulla estrazione.

Solo la Fondazione Cini scampò al massacro, soprattutto finché fu gestita, prima da Segretario Generale poi da Presidente, da Vittore Branca indi, malgrado l’appoggio di Galan governatore, vessata dall’inopia avanzante e dalla mancanza di dialogo costruttivo con la “città”, anch’essa in lieve, ma ancora recuperabilissimo, declino.

C’è da dire che il periodo d’oro di Romanelli Conducator fu quello che lo vide, alla fine degli anni ’80 e per tutto il decennio seguente, in solida partnership con l’ “omologa” alla Soprintendenza del Polo Museale veneziano (quello per cui Sgarbi era in lizza la scorsa primavera), Giovanna Nepi Sciré, altra grande immota, che affossò concordemente con il collega civico la miseranda Ca’ Pesaro, impegnata nella ventennale e mai risolta “gestione del Terzo Piano”, occupato da quello che un tempo era il notissimo Museo d’Arte Orientale, ora incistato come spina nel fianco del nobile palazzo dell’arte moderna in laguna, di cui già scrissi su Arslife.

Il povero Museo, che ospita la collezione Bardi di arte estremo-orientale in particolare giapponese il cui nucleo di oltre 30.000 pezzi è uno dei più importanti al mondo per varietà di generi artistici e decorativi, tanto ricca e unica in Europa quanto ignota al mondo, oggi vive di un sonno malaticcio e comatoso, dimesso e privo di un catalogo decente o di luci appena accettabili, poiché, anche qui, diretto da poco più che burocrati, privi (prive, a dir meglio) di qualifica scientifica d’ingresso. Una Direzione che, se invece ben condotta, lo porterebbe non solo a divenire il punto di riferimento dell’arte d’Estremo Oriente nel nostro Continente e a rivaleggiare con le maggiori kunsthallen di Nord Europa, ma anche a meritarsi finalmente la nuova sospirata sede, ristrutturata con gran dispendio di denari pubblici e ancora in attesa (chissà perché) di essere vivificata dalle opere di Utamaro e compagni, Palazzo Marcello, aldilà del Canal Grande.

Le finte scaramucce fra Comune e Soprintendenza in merito alla sfortunata Ca’ Pesaro, che ebbe il solo torto di subire come Cipro la separazione fra due “Nazioni” diverse e incomunicanti, partorirono il deludente (ma comodissimo per i contendenti, che se ne lavarono completamente le mani) risultato di far morire un intero Museo, collezioni statali e cittadine insieme.

Questo è solo un esempio del governatorato blindato, del pensiero (debolissimo) dominante, che, sotto l’aura di piena rispettabilità, e confidando nel vasto parco divertimenti che Venezia offre sempre, è stato condotto, mentre lo studioso e il museo stranieri abbandonavano ogni giorno di più le velleità di collaborazioni incrociate, di scambio di mostre prestigiose e importanti, di progetti scientifici a lungo termine…

Ciò che più si deve temere da questi lunghi imperii è lo stuolo di attendenti che generano. Ben nutriti al chiaro obiettivo di far poco. L’esercito silente che – anche al cambio della guardia – è sempre fedele all’antico dettato, ben più conveniente del rimboccarsi le maniche.

Per questo è doveroso temere per la generosa capacità di Gabriella Belli che giunge in rottura d’anno come fulmine a ciel sereno al posto del suo statico predecessore. Diavolo con acqua santa. La genìa romanelliana è stata coltivata in ben 30 anni, due generazioni di burocrati allenati al nostro sport più praticato, l’affossamento di chi vuole lavorare.

La Belli rese in tre soli lustri il MART di Rovereto uno dei Musei d’arte moderna e contemporanea più ricchi e vivaci d’Europa partendo da un progetto neppur sulla carta, facendo leva con eccezionale bravura sulla sua capacità di convincere collezionisti di riguardo a rimpinguare le poche risorse della pinacoteca provinciale in quel di Trento e inseguendo quello che era solo un sogno. Dal niente (o meglio dalla tenacia di pochi) nasce il MART, che in poco tempo attira su di sé l’ammirazione e le invidie del mondo della cultura italiana e internazionale.

Forte di tali conquiste – non senza dolore per l’abbandono del suo figlio prediletto – la Nostra si accinge a guidare Venezia, mentre tutti gli uomini e le donne di buona volontà, desiderosi e desiderose di veder muovere la marea in laguna, l’attendono con speranza.

E la Signora parte proprio dai due emblemi della venezianità più colta.

Il Correr, cui restituire la dignità perduta cominciando con l’allestimento di rassegne degne della sede (e già quella sul Guardi prevista per la prossima primavera ha ricevuto dalla Direttrice una sterzata che fa diventare una mostrina di disegni un appuntamento di respiro internazionale) indi riconfigurando il cartellone delle manifestazioni e le destinazioni d’uso dei locali; Ca’ Pesaro, da ripensare completamente nell’ottica della sua storia particolarissima: ridare vigore alla quadreria, ormai stantìa nel suo allestimento da guerre puniche senza alcuna rotazione importante, riprendere i temi fondamentali dell’arte delle Biennali e svilupparli anche con i magazzini (che da tempo non sono neppure consultati), utilizzare a piene mani l’ASAC e ricucire uno strappo che dura da troppi anni, riattare il Secondo Piano per renderlo degno dei livelli inferiori e di vere mostre temporanee che non sfruttino solo i mesi biennalieri ma che siano realtà feconda a sé bastante, recuperare (qui lo dico e qui lo nego) il Terzo Piano e unificare il Palazzo sotto l’egida dell’Arte Moderna.

Questo solo per antipasto, mentre di giorno in giorno si delineano le direttive di quella che a tutti sembra una stagione esaltante e impensabile solo pochi mesi fa.

E se i fedelissimi del reame precedente si porranno a ostacolo, molti sono disposti a giurare battaglia pur di vedere risorto l’onore del Serenissimo Polo Museale.

Da quando non si respirava aria nuova? Dall’apertura in simultanea di Roma al duplice Contemporaneo, forse da ancora prima.

Questo è quello che dobbiamo augurarci tutti da questi piccoli segni che fanno ben sperare malgrado i tempi bui, malgrado i futuri non rosei e malgrado le “cose nostre” (metaforiche e reali) che hanno inquinato il sistema dell’arte negli ultimi anni.

Ma queste “prime scelte” potrebbero essere d’auspicio anche per un’Italia che desidera fortemente cambiare e finalmente vedere, se non più noi della generazione fallace dei cinquantenni, almeno i nostri figli crescere con l’idea che se sei bravo e tenace, sei riconosciuto come tale ed è riconosciuto eccellente il tuo lavoro.

Tutti ne guadagnerebbero, e noi, ròsi dal rimorso per non aver saputo arginare il tonfo nell’abisso, potremmo tornare a credere che anche le nostre esistenze un poco illividite avranno avuto il merito di saper riconoscere il talento in un momento difficile e di averlo saputo sostenere con forza.

Buon Anno Nuovo!

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