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Scandali italiani: la Roma der Cecato che ha divorato la grande bellezza

Al Café de Paris, in via Veneto, le foto della dolce vita sono sbiadite, dimenticate da qualche parte: l’hanno chiuso perché era della ‘ndrangheta, questo simbolo di un’epoca sospesa nel suo vuoto.

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Ma non è solo quel tempo che non c’è più. E Roma non s’è svegliata ieri capitale di una mafia vorace e potente, schiava “der Cecato”, di” Tanca”,  “il Cicorione” e “il Maialotto” e di tutte queste facce da predatori, perché lo era già da molto prima, da quando aveva perso quella sua lentezza sfinita, quel suo immaginario popolare un po’ bonario e un po’ cialtrone, che ne aveva fatto la città di Alberto Sordi, il soldato vile e truffaldino della Grande Guerra, che alla fine riesce a morire come un eroe.

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Oggi, invece, il suo volto è quello di Massimo Carminati, “er Cecato”, ex-Nar rimasto senza un occhio dopo una sparatoria con la Polizia, ex Nero della Banda della Magliana, il nuovo “Re di Roma“, come si definisce lui, il padrone del «mondo di mezzo», figlio di un’epoca perversa che discende dai segreti di trame oblique, dagli anni di piombo e delle stragi impunite, quando anche questa città è rimasta sotto i soldoni degli scempi edilizi e i favori elargiti dalle spie di Stato.

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Adesso che il Café de Paris, dove il sindaco Gianni Alemanno faceva festa prima che chiudesse con amici calabresi arrestati per associazione mafiosa, adesso che ha le porte sbarrate e le fioriere piene di cicche, dietro questa immagine così emblematica resta tutto quello che ascoltiamo in questi giorni.

“Er Cecato” parlava come si parla oggi, perché anche il romanesco è cambiato, è diventato spurio, involgarito dalla sua ignoranza e dalla sua miseria umana: «Glielo devi dire… “a come ti chiami? comandiamo sempre noi, non comanderà mai uno come te sulla strada, tu ciavrai sempre bisogno di noi”».

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Se è vero, come dice la Contessa Colonna nel film di Paolo Sorrentino, “La Grande Bellezza“, che «la povertà non si racconta, si vive», anche per tutto lo squallore e la volgarità che hanno avvolto Roma come in un sudario, non ci sono parole che possono bastare.

La capitale marcia che sta venendo fuori da questa inchiesta si esprime meglio attraverso le immagini e i pensieri dei suoi padroni, perché «hai visto te quel giorno», dice Carminati, «hai visto a me me s’è magnato e me s’è ricacato…», così spiegando ai suoi che non gli servono troppe belle parole: «facendogli sto discorso a me non me ne frega un cazzo, io gli faccio guadagnà i soldi a lui, e a me non me frega proprio niente…».

Non è più il linguaggio del suo popolo, ma della sua feccia, dei malavitosi che ne hanno conquistato il potere.

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E la verità è che anche La Grande Bellezza di Sorrentino raccontava un mondo a margine, una realtà secondaria, del tutto inutile a rappresentare l’immagine più autentica e più profonda di Roma, una foto di gruppo già trasformata nel suo interno da mutamenti molto più profondi, dove il cinismo intellettuale di Jap Gambardella è quasi tenero, per assurdo, persino superato: «E’ così triste essere bravi, si rischia di diventare abili».

E’ molto più cruda e spietata la città di oggi: «Sono come un polipo che sta attaccato qua, si sta ingrandendo perché c’ha fiducia», dice Carminati, «cià un domani». Com’è fuori dai confini, la nostalgica melanconia di Toni Servillo: «M’ero scordato cosa voleva dire voler bene».

La cosa più brutta di tutto questo è che Roma alla fine è diventata proprio quello che volevano i suoi detrattori, tutti i suoi nemici che con invettive furiose l’hanno sempre denigrata oltre i suoi limiti, da Giovanni Papini che la rappresentava come «una città brigantesca e saccheggiatrice», e mantenuta, fino ad Alberto Moravia che spiegava come fosse impossibile amarla, con parole persino brutali: «Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?».

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Invece, c’è stato chi come noi se n’era innamorato, ritrovando in quel suo particolare calore popolaresco, così ben rappresentato dal suo dialetto, un pezzo del nostro cinema migliore, oltre che soprattutto della nostra storia, del nostro modo di essere, sempre in bilico tra virtù e peccato, e per questo così umano. Ma da tempo non la riconoscevamo più.

La Grande Bellezza stava nella sua memoria, nelle poesie di Gioacchino Belli e in quel suo romanesco, nella città vittima dei predoni e dei Savoia, e non ancora essa stessa predona. Non c’era più. Lo sapeva lo stesso Jap Gambardella con quell’aria cinica che gli aveva appiccicato Toni Servillo e il fumo di una sigaretta sugli occhi:

«Ho cercato la Grande Bellezza. Ma non l’ho trovata». E’ solo un trucco, diceva.

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