Ivania Gutierrez è minuta e piccina. Una bambola con vestito a pois e rughe che solcano occhi profondi. Balla. <Lo facevo con Elvis Presley, sai? Molto tempo fa…> sillaba in una rumba leggera. Da una parte Elvis e dall’altra Fidel? Ivania si ferma, le sue amiche la guardano timorose. <No, Fidel era diverso…>. Poi riprende. E non smette più: <Ho aspettato tanto, ho avuto quel che potevo, ci sarò ancora domani…>. E quando i Rolling Stones sono lì, a pochi metri, e la folla immensa si sbraccia di gioia, Ivania cerca un varco fra braccia che sono alberi altissimi, perché vuole vedere la fonte del peccato e del desiderio.
Vuole capire se la fedeltà a un’idea, l’istinto naturale al bello, può coincidere con i dollari degli yanquis. Il prato luminoso, le centinaia di migliaia di cubani scesi alla Ciudad Deportiva, per un concerto che è già nella Storia, è indefinibile: la più bizzarra fashion walk che si possa immaginare, volti d’ebano, treccine su lineamenti dolcissimi, ragazzine-giaguaro, corpi sudati ma tonici, tunichette, jeans, t-shirt e gilet che sembrano usciti da Faubourg St Honoré. Invece è l’arte di sedurre senza copiare, il dna esotico che nemmeno i piani speciali del castrismo senza più soldi hanno intaccato.
Ha ragione Mick Jagger, quando ruba la scena alla politica e dice: <Sappiamo che anni fa era molto difficile ascoltare la nostra musica a Cuba. Ma ora siamo qui per voi. Credo che i tempi stiano cambiando, no?>. Non dice che da Miami, in questo weekend di Pasqua, si sono mossi faccendieri e lobbysti pronti a ricostruire l’Havana. Un tempo avrebbero snobbato il Congreso de la Industria de la moda, el mueble, los ambientes y los estilos, aperto ieri, dove si sono precipitati anche investitori europei e del Far East. Li intercetti al Saratoga, ai due Melià, al National, dove nessuno si è premurato di rimuovere due foto di Meyer Lansky, il ragioniere di Cosa Nostra, mente algebrica di quel malaffare che Castro rispedì a casa. Colpo basso che spiazzò il dipartimento di stato americano più delle nazionalizzazioni di fabbriche, piantagioni e proprietà.
Ma nel grande campo colorato, c’è anche una luna assassina che spunta a tradimento, gli Stones sono la leggenda accettabile di un mondo che ha messo in ginocchio i cubani. Che ora, soprattutto i giovani, vogliono fare a modo loro, nel più classico gap generazionale, senza perdere la faccia. Jagger, Richards, Watts e Wood, quattro maschere segnate dalla fatica ma con un’energia inspiegabile, sono <la prova che si possono fare tante rivoluzioni> dice Laura, una 17 enne smart <dipende da quello che vuoi o sei costretto a chiedere>. Bum, bum bum. Il rock infrange la barriera della commozione, Jagger si snoda come un ballerino, Richards strappa alla chitarra il suo blues migliore: <Quasi quasi, resto con voi per sempre> dirà alla folla adorante. E quando il baronetto Mick sventola la bandiera cubana, mezzo secolo di ripicche, guerre mediatiche, ritorsioni si sbriciolano, perché è il momento. <Sì, forse ci siamo e sa perché?> mi dice un manager dell’isola <sino a pochi anni fa eravamo un popolo orgoglioso ma ci sentivamo di serie b rispetto ai turisti. Oggi possiamo comprarci un’auto, una casa, uno smartphone. Non sono valori come l’istruzione e la sanità per tutti, d’accordo, ma siamo ad armi quasi pari. O lo saremo presto>.
Bum, bum, bum. La febbre sale. “Gimme Shelter”, “Start Me Up”, “Sympathy for the Devil” e “Brown Sugar” abbracciano i pensionati di San Miguel, il barrio più popolare della città, gli studenti saliti da Trinidad, i ragazzi che se la sono fatta, su camion sgomberati dai container e riarrangiati come bus, da Santiago, ch’è a una distanza feroce dall’Avana. Tutto converge su questo spiazzo dove le divise dei corpi speciali e della polizia sbucano al primo segnale che l’eccitazione diventi rissa. Una moretta si attacca con furia devastatrice a un colosso bruno. Devono staccargliela in tre, un poliziotto la porta via di peso: <Non dovevi solo divertirti?>. Torna dopo cinque minuti, trionfante ma truce. Questo è il Caribe. Dove la passione ti acceca, e gli Stones ti fanno piangere di gioia. Dove “Satisfaction” non finisce mai, e Richards suona così potente che persino Wood non ce la fa, prende la chitarra, la punta verso i basso e ci si appoggia come a una croce. I cubani no. Ne vorrebbero ancora. Venerdì hanno rifatto la Storia. Che carattere.
Per gentile concessione de Il Secolo XIX (28.03.2016)
…..oltre CUBA, im…mo…rta…li !!!