All’Auditorium Conciliazione di Roma dal 15 febbraio fino al 3 aprile c’è MICROCITIES di Matteo Procaccioli. La mostra, curata da Luca Beatrice, prosegue il suo percorso dopo il recente successo milanese al Museo della Permanente di Milano. E nella Capitale darà il via alla stagione di VISIONAREA, un temporary (e Contemporary) Art Museum con la direzione artistica di Matteo Basilé che si sviluppa attorno al Chorus Cafè e all’Auditorium stesso.
La fotografia di Procaccioli nasce con l’intenzione di cogliere nei segni delle architetture e delle città il “tra”, la traccia del passaggio tra tradizione e contemporaneità. Là, dove la vita quotidiana scorre spesso inconsapevole della storia e delle culture che l’hanno preceduta. Il fotografo milanese, che ha iniziato fotografando dal basso strutture abbandonate, relitti di un mondo passato che è stato vissuto e che garantiscono la possibilità di raccontarsi ipotesi, di ricostruire episodi o anche epopee, con MICROCITIES – suo ultimo lavoro – passa ad un cambio di visuale: intere città vengono infatti riprese dall’alto, a volo di uccello, ponendo in evidenza la loro collocazione nel contesto delle forme naturali che le circondano, e facendosi in questo modo apparentemente piccole.
Un approccio moderno, in linea con l’epoca di google maps e dei droni, con cui stiamo imparando a riconoscere le città non solo dallo skyline, ma anche dalla flatline; ma, grazie al caratteristico lavoro dell’artista sullo scatto, che viene ritoccato sia a livello materico che – in seguito – in postproduzione digitale, Microcities assume anche un’aspetto “vintage” che ricorda la fotografia aerea della fine del XIX secolo.
Ancora una volta – come già nei precedenti lavori di Procaccioli – la figura umana non compare nelle fotografie: peraltro, con la ripresa dall’alto, la cosa è naturale. Innaturali, invece, appaiono non solo gli agglomerati urbani, ma perfino la natura che li circonda: ogni linea, ogni curva presente negli scatti non sembra essere quello che è (che sia una collina, o un fiume, o una strada…), e ciò contribuisce a de-umanizzare ulteriormente quanto ritratto. Le città si svuotano di identità e divengono altro: semplici forme geometriche. Questo lascia lo spettatore disorientato, e trasferisce inevitabilmente i contesti urbani su un piano metafisico, in cui il tempo pare non esistere, e anche la natura circostante assume un aspetto freddo, quasi paradossalmente innaturale, rendendosi un continuum in perfetta, disarmonica armonia con le forme della città.
Gillo Dorfles e Vittorio Sgarbi hanno così commentato il lavoro di Matteo Procaccioli:
“Credo che uno dei meriti di Procaccioli sia appunto quello di saper ritrarre la realtà nel modo più coerente e figurativamente responsabile ma allo stesso tempo trasformare queste realtà esistenziali in un tipo di esperienza inventiva e fantastica, in un certo senso, lontana da quella che è la semplice raffigurazione fotografica”.
Gillo DorflesLe fotografie di Matteo Procaccioli non documentano, non riproducono, non riflettono né realtà né stati d’animo. Perlustrano luoghi aridi e impraticabili, rendendoli accostabili soltanto alle vedute a cavaliere consentite da una distanza che ritaglia porzioni di un mondo più inconoscibile che sconosciuto. Non è il primo e non è il solo ma è certamente il più distaccato, come se il suo occhio coincidesse con l’obiettivo che scatta immagini prescindendo dalla volontà dell’uomo. C’è dunque una umanità delle cose, una emotività della macchina che vede, pensa e sente per chi la usa prescindendo dalla propria sensibilità. (…) Le ho guardate e riguardate e benché sia fra gli uomini uno di quelli che ha più visto, non ho riconosciuto un solo luogo, un solo continente, un solo estuario, una sola collina. E dove sembra di conoscere, una luce nebbiosa scende sulle cose come per dissolverle, così Procaccioli si porta dietro il suo segreto con tanta convinzione da nascondere il mondo anche a se’ stesso.
Vittorio Sgarbi