A Milano, una piccola ma raffinata mostra per riscoprire Daniele Ranzoni, uno dei pittori più eleganti dell’Ottocento italiano, esponente di quella Scapigliatura mai del tutto compresa e subito dimenticata. Alle Gallerie Maspes fino al 24 giugno 2017-
All’indomani dell’unità d’Italia, Milàn l’èra un gran Milàn, per le stagioni della Scala come per la vitalità del ceto imprenditoriale, e poi, a ben guardare, anche perché sulle ali del vento di novità portato dagli ideali del Risorgimento – con la sua ebbrezza di libertà e battaglie -, la quieta scena intellettuale cittadina – sin lì dominata dai romantici manzoniani e dagli epigoni di Parini -, venne scossa da un movimento che aveva del goliardico, del ribelle, dell’intellettuale, del disperato. In una parola, la Scapigliatura, così chiamata dal romanzo di Cletto Arrighi, che al suo apparire divenne una sorta di Bibbia per i giovani milanesi dell’epoca. Un movimento, quello degli Scapigliati, che toccò la letteratura, la poesia, la pittura e la musica, discipline che furono aperte alle esperienze francesi del Naturalismo di Zola e del Simbolismo di Baudelaire; a differenza dei Macchiaioli, convinti assertori della nuova Italia unita e impegnati a raccontarne il vasto mondo rurale, gli Scapigliati ampliano lo spettro d’indagine naturalistica affiancandovi la dimensione psicologica, per raccontare in profondità le vicende dell’essere umano, animato da passioni e pulsioni che spesso ne condizionano l’agire. Raffinati e colti, gli Scapigliati guardano anche al romanticismo di stampo tedesco, assai meno languido di quello italiano e capace di far emergere il conflitto fra artista e società, che si fa ancora più evidente nell’esperienza diretta dei bohémiens parigini, di fatto i veri maestri del gruppo milanese. C’è quindi un profondo rigetto dei valori borghesi, il primo nella storia europea, in favore di una vita spesa per l’arte.
La pittura scapigliata è calata in atmosfere eleganti e sottilmente inquietanti, appena morbose e garbatamente sensuali, dove il sentimento si fa trasforma in manifestazione psicologica anche instabile, febbrile, convulsa. Una concezione che rispecchia il disagio di questi artisti e intellettuali, molti dei quali borghesi per nascita, ma ben diversi per temperamento. Daniele Ranzoni (1843-1889), nacque a Intra sul Lago Maggiore, e si formò all’Accademia di Brera prima, e all’Albertina di Torino successivamente, cui si aggiunge un soggiorno in Inghilterra sul finire degli anni Settanta. La sua figura è fra le più interessanti della Scapigliatura, e la curatrice Annie-Paule Quinsac gli rende omaggio attraverso dieci opere nella mostra Daniele Ranzoni. Lo Scapigliato maudit, che nel titolo riassume il carattere del personaggio.
Quella scapigliata fu una pittura che si concentrò principalmente sulla ritrattistica, per ovvie ragioni: è dai volti degli individui che si può capire e dipingere la loro psicologia, il mistero degli sguardi, il corpo che consuma se stesso attraverso un fitto lavorio della mente. Nelle tele di Ranzoni, come della Scapigliatura tutta, aleggia un velo di malinconia, non soltanto per via della tecnica pittorica (a colori tenui e sfumati, come quelli della campagna padana), che fa sembrare i ritratti altrettante visioni del passato, che sorgono da un album di ricordi ormai irraggiungibili, avvolti in un silenzio sepolcrale; ma anche perché gli sguardi pensosi dei personaggi ritratti non si perdono in un sognante vuoto contemplativo (come le donne di Corcos, ad esempio), bensì sembrano guardare all’incerto domani, lucidi per una strana febbre, umidi di lacrime passate. La bellezza dipinta dagli scapigliati è sì delicata, ma anche sofferente, pallida, come un volto che emerge da memorie vecchie di secoli, simbolo di un passato che la modernità sta spazzando via irrimediabilmente. Per questo, nascosta sul fondo della tela, si avverte la sensazione della morte incombente, che avvolge non soltanto il soggetto del quadro, ma avvolge l’autore, e in ultima analisi, chi osserva; una presenza però ironica, gattopardesca.
Da queste pitture scaturisce una malinconica rabbia di sapore leopardiano; a ben guardare, il poeta di Recanati è stato forse il primo scapigliato d’Italia, attento e indulgente studioso della psiche dell’individuo, estimatore della bellezza femminile e amante della vita nonostante questa lo avesse castigato chiudendolo in un corpo debole e deforme. Se le ragazza ritratte dagli Scapigliati possono ricordare quella Silvia uccisa dalla tubercolosi, mentre, a un livello più strettamente concettuale, il quasi continuo riferirsi della pittura scapigliata a soggetti giovanili, richiama l’atmosfera del Sabato del villaggio: la Scapigliatura è come l’adolescenza, preda di pulsioni e ideali, slanci e timori, che, una volta bruciata l’attesa del loro compimento, potrebbero anche riuscire assai gravi. Un parallelismo che dà la misura dell’ancora sottovalutata modernità di Leopardi, del suo precorrere i tempi.
Ma in chiave a lui contemporanea, Ranzoni strinse profonda amicizia con Carlo Dossi (della cui consorte ha realizzato uno splendido ritratto): le sue tele possiedono la medesima delicatezza delle pagine della Vita di Alberto Pisani, scritto appunto da Dossi, e probabilmente il miglior romanzo della Scapigliatura sulla Scapigliatura. Nella debosciata signorilità del protagonista, si ravvisa l’analoga, eccessiva raffinatezza degli Scapigliati, buona parte dei quali scomparve, come Leopardi, in età ancora giovane, ma per ragioni differenti: dandy troppo impegnati nell’arte per occuparsi di se stessi, della propria salute fisica, molti, compreso Ranzoni, morirono in seguito a malattie trascurate, o a disturbi nervosi accentuati da un perenne stato di alterazione; riuscirono, in un insuperabile gesto di catarsi artistica, a morire secondo i fondamenti della loro esperienza culturale, a trasformare anche la morte in un’esperienza psicologica appena sardonica. Paradosso, certo; ma di questo è fatta la letteratura scapigliata, Tarchetti e Dossi su tutti, le cui pagine dolci e amare sono l’estremo, coraggioso tentativo di salvare un’estetica e una morale legate alla missione dell’intellettuale nella società, in quanto guida critica e a suo modo spirituale. Breve come ogni bella stagione, la Scapigliatura, è stata dimenticata e superata, al pari di quell’Italia laica e liberale che per un attimo aveva immaginata. I governi Depretis e Crispi, la società totalitaria del Ventennio, e quella ancora più massificata del secondo Dopoguerra, non hanno lasciato spazio a intellettuali e sognatori di quel calibro.
Eppure, se andiamo a rileggere con attenzione quegli autori meno frequentati della letteratura italiana, incontriamo quel Carlo Emilio Gadda e la sua opera Adalgisa, nelle cui pagine la società milanese è ritratta con la stessa graffiante ironia della Scapigliatura; un senso critico raffinato di cui da tempo abbiamo perso persino il ricordo.
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