Se voi aveste veduto, come me, la singolare rarefazione di pubblico – generalmente in calata poderosa, nelle vernici biennaliere – che contraddistinse l’apertura della nostra amata kermesse quest’anno alla cinquantasettesima edizione, avreste forse considerato che – al più – trattavasi di un’inaugurazione a Punta della Dogana, un party in onore dell’ennesimo matrimonio hollywoodiano in laguna, la festa per il nuovo mall per turisti annoiati in cerca di oggetti costosi (sempre quelli in tutto il globo!)… mai avreste potuto affermare di trovarvi nella corrente adriatica della consueta transumanza veneziana dell’arte, mai avreste potuto salire con cotanta facilità sui vaporetti di solito così straboccanti da far temere per il loro galleggiamento, mai avreste immaginato di sedervi senza patire ore di coda agli spartani baretti biennalieri (una costante, questa, che non teme tramonti: qui non c’è segno né di miglioramento, né di peggioramento, talché si potrebbe pensare che i paninetti stantii e le insalate sciape vengano abbattuti in megacongelatori pronti a essere serviti due anni dopo).
E’ davvero l’apertura della Biennale quella che ho visto in questi giorni di tempo bizzarro e gelido, in questi giorni in cui le mostre “off” superano di gran lunga la qualità dell’ammiraglia, in questi giorni in cui l’evidente scrematura di inviti ha prodotto più vantaggi che svantaggi?
Alcuni affermano sia colpa della crisi (quale, di grazia? ma non ne eravamo usciti?), altri sia a cagione della potente girata di chiave alla cassaforte degli inviti alla vernice – soprattutto per la stampa -, altri ancora che il tempo davvero fuori barometro allontanò molti avventori, altri che “gli americani arrivano in Europa con Basilea, non con Venezia…”, o – infine – che il terrore degli assembramenti stia facendo il punto della situazione e ci abbia definitivamente costretto a modificare usi e costumi.
In ogni caso, ne abbiamo tutti guadagnato e abbiamo trascorso senza patemi questi giorni durante i quali anche le feste (gli “eventi”) organizzate dai soliti noti, alla fine, non hanno fatto tanto più scalpore del solito, mentre le cene più appartate, nelle case private, per i singoli artisti invitati dalla curatrice Christine Macel, si sono rivelate più interessanti, più gioiose, più intriganti.
I vips sembrano stanchi di essere vips, coagulati tutti in serate placées dove gli argomenti di conversazione sono simili agli insapori piatti internazionali dei catering locali e non, e preferiscono accodarsi ai pochi veneziani doc in circolazione per scoprire un canto amico in qualche bàcaro verace e chiassoso.
Il lungo incipit cerca di far intendere al mio lettore quale svolta (di forma e contenuto) questa Biennale del 2017 abbia dato alla percezione della manifestazione: più qualità (fuor di Biennale, purtroppo, ma in alcuni casi eccelsi anche dentro Giardini e Arsenale), più intenzione di essere davvero parte di un meccanismo che deve oggi consegnare la lettura più affascinante del nostro tempo, più desiderio di osservare e meno di essere osservati.
Sopra ogni cosa, l’ombra scura del mercato lambisce ogni appuntamento senza pietà ma con andamento più sottile e intelligente, imponendo alcuni parametri ora particolarmente in voga (come la scelta, temo già sin troppo abusata, di puntare, anche nel novero degli artisti della mostra curatoriale, su alcuni mostri sacri che tranquillizzano animi e portafogli).
In questo pezzo introduttivo, dirò subito che, per me – in contrasto con altre notabili penne di Artslife -, questa edizione della curatrice Macel si è rivelata assai deludente soprattutto nel percorso a Palazzo delle Esposizioni ai Giardini, con una lieve ripresa all’Arsenale. Tutti ormai sanno che l’intento di lasciare carta bianca all’artista, affinché esprima liberamente la propria poetica, solo isolando alcune aree evocative di riferimento (il cui soggetto antropologico-civile ha fornito una linea guida ma non ha mai prevaricato l’afflato artistico) è riuscito pienamente, che il progetto curatoriale si è sviluppato con ordine e semplicità, che le promesse della vigilia sono state completamente mantenute. Eppure…
Eppure è proprio la selezione che non convince, la scelta degli artisti, alcuni d’imbarazzante mediocrità, altri semplicemente impropri o poco intensi, buona parte deboli.
Un’opinione tranchant che deve essere – e sarà – motivata, ma che rispecchia il sentire comune fra i composti vialetti dopo Via Garibaldi e prima di Sant’Elena e le ariose e affascinanti aule postindustriali dell’Arsenale. Lo strapotere della curatela che con Gioni quattro anni fa aveva prodotto una delle migliori Biennali degli ultimi decenni ma che con la storica dell’arte Bice Curiger aveva peccato di supponenza, sdrucciolando pericolosamente nella noia, e con Okwui Enwezor di eccessiva verve politica tanto da far dimenticare il buon risultato raggiunto (ovvero la straordinaria e convincente rappresentanza di artisti di paesi emergenti), in questa edizione è decisamente mitigato, per la felicità di tutti coloro che pensano che un curatore non possa avere una linea potente cui gli artisti debbano corrispondere con le proprie opere.
Ma questa sottodimensione intellettuale, che da un lato regala una delle Biennali più ordinate e comprensibili degli ultimi tempi, provoca una débacle dal punto di vista della pregnanza visiva, dell’impatto del messaggio, della, ancora, qualità di artisti e opere.
Ai Giardini e all’Arsenale sembra di percorrere la prova d’esame di curatela di un pool di giovani dell’Accademia che, provvisti di commovente energia e genuina voglia di fare, ma atterriti al pensiero di compiere un guizzo, un inciampo, un passo più lungo della gamba, collazionano per ogni sezione il numero corretto di artisti che “davvero usano le trame e gli orditi tessili” o che “davvero hanno come punto di riferimento la riflessione intorno al rapporto uomo-natura” o che “certamente approfondiscono il tema dell’artista sciamano” e via così cantando.
Christine Macel è stata ispettrice della creazione artistica per la “Délégation aux Arts Plastiques” per il Ministero della Cultura francese, è curatore capo presso il noto Beaubourg dove dirige il dipartimento della “Création contemporaine et prospective” ed è famosa, anche nelle nostre lande, per aver accompagnato il magnifico, emozionante padiglione francese di Anri Sala nella Biennale del 2013.
Un curriculum che non ha confronti da noi: chi fra i nostri garruli esperti, curatori, critici, storici dell’arte può vantare di essere responsabile della creazione artistica per un qualsiasi museo di arte contemporanea in Italia? E, in effetti, le mostre collettive organizzate dalla Macel sono di tutto rispetto: qualcuno dei suoi pupilli, come è logico che sia, rientra anche nel numero degli happy fews della rassegna veneziana. Ma sembra davvero che una tale carriera, così ben inserita e strutturata in contesti di elevata ufficialità, abbia decolorato la passione, abbia spento l’irruenza, abbia fatto precipitare l’esperienza nel tombino dell’insapidità, abbia assurto la didascalia a parametro cognitivo. Che essere troppo bravi sia uno svantaggio?
E, alla fine, si è davvero bravi quando si è troppo bravi?
I padiglioni nazionali salvano questa composta teoria di educati e soporiferi autori e, in qualche caso, bucano l’obiettivo centrandolo.
Segnalo, così, sul molo, gli ottimi Padiglioni di Svizzera, Germania (l’asso piglia tutto di questa edizione), Corea, Romania, lo stupefacente Canada e la Cina come sempre inappuntabile e di notevole spessore culturale, arrivata anche questa volta in laguna con il massimo che un apparato culturale di prestigio può tributare all’occasione. Spero di poter approfondire e ampliare queste considerazioni anche per incrementare, motivandolo, il numero dei Padiglioni “promossi”, ma per il momento è più urgente scrivere intorno alla nostra rappresentanza (a vario titolo) in Biennale, una rappresentanza che ci fa sentire orgogliosamente patriottici senza tema di essere boriosi o, peggio, fuori luogo: laddove nessun proclama può più della realtà del dato oggettivo.
Non c’è alcun dubbio, il nostro strepitoso Padiglione Italia emerge su tutti, con tre opere che rimarranno nella storia della Biennale insieme ai loro genitori: Roberto Cuoghi, con la sua Imitazione di Cristo che lascia esterrefatti dallo stupore e dal compiacimento (una perfetta risposta a un’operazione non così dissimile del collega meno engagé Damien Hirst a qualche bracciata di distanza), Adelita Husny-Bey, con il suo video-installazione The Reading – La Seduta dai toni delicati e intensi di grande efficacia, Giorgio Andreotta Calò, con Senza Titolo (La fine del mondo), un percorso “fra” gli inferi di una civiltà distrutta e in eterna, improbabile ricostruzione appagata da un piano superiore di coscienza (una salita al divino – o alla vita? – che ricorda tanto la scala della presentazione al tempio della Vergine di Tintoretto, anche per via dei cieli corruschi…).
Il nostro padiglione avrebbe certamente meritato di vincere, così come molti speravano, e non solo dallo Stivale. La delusione per il mancato traguardo è mitigata però dalla considerazione che l’arte vera (l’arte viva) si fa strada da sola.
E così, anche l’eccellente Cecilia Alemani, infischiandosene di tutti i pronostici che la decretavano già fallace in partenza, ha dimostrato che la contiguità vera, e non solo presunta o meramente istituzionale, con l’arte contemporanea premia e che la capacità di organizzare magistralmente materiale così potente e coinvolgente non è da tutti.
Ma anche i nostri paladini nella mostra curatoriale si sono fatti valere: il bravissimo Salvatore Arancio trova perfetto inserimento al Giardino delle Vergini in Arsenale con un video stralunato che assomma qualità ipnotiche agli stilemi antinaturalistici propri del nostro artista emigrato a Londra, mentre all’aperto svettano i suoi siluri plastici che emergono da lave ctonie come a sottolineare l’irrealtà (surrealtà?) dell’ambiente in cui si trovano. Irma Blank e Maria Lai ribadiscono l’intensità del loro lavoro di complesso recupero della memoria e delle proprie origini. Michele Ciacciofera convince con un’articolata e bella installazione dai molti mezzi espressivi-artigianali legati alla natìa Sardegna.
Molto altro ci sarebbe da dire, e forse si dirà più avanti in queste pagine, ma non c’è alcun dubbio che – per questa volta, in quest’occasione più unica che rara – una curatrice di prim’ordine sbaragliò le trombonaggini impresentabili dei padiglioni sgarbiani, l’esposizione onesta e senza sugo di quelli pietromarcheschi e le peste faticose e inutilmente complesse di quelli trioneschi.
E poiché, a quanto vedo, le donne imperano in questa Biennale dei buoni sentimenti, fa piacere osservare che le femmine italiche hanno infinita più grinta, motivazioni e mestiere di certi colleghi maschi che – temendo anche la propria ombra – lasciarono il carattere per rimanere nelle sicure, confortevoli paludi dell’abdicazione al coraggio e all’urgenza di cambiare radicalmente la considerazione che il mondo ha dell’arte italiana contemporanea.
Testo e immagini di Cristiana Curti per Artslife
Eppure cara Cristiana Curti che questa Biennale critichi e adori giusto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte di democristiana memoria, te la supero in un amen se un qualunque sperduto e anonimo gallerista o ente pubblico (ma la Biennale non é un ente pubblico?) mi consente di esporre fisicamente solo l’Epilogo del mio Poema visivo del XXI secolo (1993/2013) che trovi comunque tranquillamente sul mio Blog (i primi 2013 pezzi), in un amen, giusto per dirti che potevi risparmiarci le tue corbellerie sulla curatela femminile, perché l’anima mia cara, non é una questione di sesso e il Capolavoro é solo una questione di genio, assente anche in questa Biennale (questo avresti dovuto sottolineare bambina mia). Stefano Armellin 18/05/2017