Una Olivetti argentea del 1968 in mezzo alla sala accompagnata da uno scritto appeso alla parete. Nome tecnico del “mezzo”: calcolatrice Divisumma 14. Nome d’arte: Macchina drogata. Il marchio di fabbrica apposto sullo scivolo di ghisa lascia il posto alla firma, “Vincenzo Agnetti ’68”. Protagonista del lavoro di Agnetti (Milano, 1926-1981) fin dalla prima mostra dedicatale a Milano nel ’69, la Macchina drogata non perde il suo fascino quasi mezzo secolo più tardi a Palazzo Reale di Milano, che dedica all’artista concettuale una ricchissima rassegna antologica. A cent’anni da adesso: il tempo di Agnetti. Un tempo capace di trasformare ed equilibrare. Più di cento opere realizzate tra il 1967 e il 1971 in mostra fino al prossimo 24 settembre.
La parola è tutto e nella parola c’è tutto. I meccanismi di potere della parola, sia scritta che detta, vengono sconvolti e tradotti in immagini limpide ed evocative. Agnetti dà alla luce un sistema semantico nuovo. Dagli ingrandimenti fotografici su tela emulsionata -“creature” realizzate dalla Macchina drogata– all’Amleto politico: un’intera sala è dedicata a questa operazione di teatro statico in cui l’Amleto non è più l’uomo del dubbio, ma uno qualsiasi che arringa la folla con un monologo privo di significati. L’intonazione è ciò che conta davvero e con essa Agnetti dà linguaggio ai numeri.
Un lavoro che fa onore alla contraddizione permanente e al paradosso. Sempre con ironia. Agnetti lascia parlare le proprie opere, affidando al pensiero di chi guarda lo sviluppo e il senso di quanto egli ha scritto e immaginato. Una poetica concettuale per cui mezzo e supporto sono fondamentali. Ricerche che incidono Assiomi sulla fredda bachelite nera -supporto di un enunciato concettuale, vedi: L’arte è la deposizione del pensiero e il pensiero è la dilatazione dell’arte-, e si stampano sul ruvido calore del feltro dipinto per fingersi supporto di una narrazione. I Ritratti, quello dell’Amante per esempio recita: Chiuso in se stesso nel corpo di un altro.
Immagini, numeri e parole fanno parte di un unico pensiero nel linguaggio “agnettiano”. A volte i numeri lasciano il posto alle lettere -come nel caso sopraccitato della Macchina drogata– altre volte sono le lettere a essere sostituite dai numeri in una “nuova” Tavola di Dario tradotta in tutte le lingue del mondo. Alla base, la ricerca dei meccanismi sottesi al rapporto tra individuo e collettività. Tra linguaggio universale ed espressione piena del singolo.
Agnetti apprende, ricorda e -non meno importante dei due processi mentali precedenti- “dimentica a memoria”, concetto-fonte di ispirazione per lavori come Quando mi vidi non c’ero e Il Libro dimenticato a Memoria, dove l’artista rimuove la parte centrale del volume, che, una volta appreso e ricordato, perde di utilità. Una critica che va oltre il linguaggio, che azzera per ripartire da ancora prima dell’inizio e che vive in un tempo lontano. Ecco che si sviluppa il procedimento alterato che origina le Photo-Graffie. Il foglio di carta fotografica viene esposto alla luce e lasciato annerire al sole. La luce annulla ogni possibile immagine dissolvendo tutto nel nero. Un nero che pare spoglio, ma che contiene il tutto. Graffiando poi la carta fotografica annerita, emergono nuove immagini dal proprio sguardo interiore. Le Photo-Graffie sono ancora una volta esempio di un rapporto essenziale: quello tra mezzo e messaggio. L’alchimia della carta fotografica diventa supporto di una visione. Le Stagioni nascono proprio da questo processo alterato e vengono accompagnate dalla poesia I dicitori, che inaugura un nuovo corso di Vincenzo Agnetti, più lirico e poetico.
Intonazione, parola scritta e detta, punteggiatura. Da Autotelefonata a Tutta la Storia dell’Arte in questi tre lavori. Da Età media di A, fino a lavori meno noti come Architettura tradotta per tutti i popoli e Riserva di caccia. Importante infine il sodalizio con alcuni grandi artisti per i quali Agnetti ha scritto e con i quali ha collaborato: Manzoni, Castellani, Melotti, Claudio Parmiggiani, Gianni Colombo e Paolo Scheggi. Con quest’ultimo Agnetti ha firmato il Trono, lavoro esposto proprio a Palazzo Reale per la prima volta dopo quasi cinquant’anni dalla sua prima esposizione a Roma. Quella di Agnetti fu una breve parabola artistica -muore improvvisamente a soli 54 anni- ma così intensa da rendere difficoltoso l’orientarsi tra le sue produzioni. Proprio per questo la mostra non segue un filo cronologico, ma privilegia il sentiero del discorso artistico. Oscilla tra associazioni e salti temporali tra periodi diversi allo scopo di accompagnare il visitatore tra le sfaccettature interiori del processo creativo dell’artista. La mostra A cent’anni da adesso ci dà la possibilità di scoprire e indagare la poliedrica e originale complessità del lavoro di Vincenzo Agnetti e -come avrebbe voluto proprio l’artista- “di continuare a vedere la mostra con gli occhi della mente, anche dopo essere usciti dalla galleria”, in questo caso, da Palazzo Reale.
Informazioni utili
VINCENZO AGNETTI. A cent’anni da adesso
Milano, Palazzo Reale
Dal 4 luglio al 24 settembre 2017
Mostra antologica curata da Marco Meneguzzo con l’Archivio Agnetti
Catalogo Silvana Editoriale
Orari
Lunedì: 14.30-19.30
Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30
Giovedì e sabato: 9.30-22.30 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura)
Ingresso gratuito